Quando però dai primi voli dello space shuttle si capì (nonostante le “guerre stellari” annunciate più volte da Ronald Reagan) che le navette Usa avevano solo scopi scientifici, anche il Buran tornò alla sua destinazione d’origine: quella di “traghetto spaziale”.
La navetta era stata progettata per compiere almeno un centinaio di viaggi orbitali con a bordo fino ad un massimo di 10 persone tra piloti (fino a quattro) e scienziati (fino a sei), ma rispetto al suo omologo americano poteva viaggiare anche senza equipaggio, guidato da terra, come accadde per il suo primo volo di esattamente 25 anni fa. Quel giorno, dopo essersi sganciato dal vettore Energia, il Buran compì due volte il giro della Terra, e concluse la sua prima missione atterrando su di una pista del cosmodromo di Baikonur 3 ore e 25 minuti dopo il lancio.
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L’euforia per il successo andò a coprire quello che in realtà fu il canto del cigno della cosmonautica sovietica: i conti economici di Mosca erano già nel 1988 al collasso, e il peggioramento della situazione dovuta al fallimento delle riforme gorbacioviane portò nel 1990 ad una sospensione del programma, in attesa di tempi migliori che avrebbero anche consentito di completare la costruzione di altre due navette, il “Ptichka” e il “Baikal”.
Un anno dopo l’Urss cessava di esistere, e nella nuova e indebitatissima Russia di Boris Eltsin non ci fu più posto per il Programma Buran, che nel 1993 venne definitivamente annullato: al suo posto, Mosca preferì ripiegare sulle vecchie ma economiche navicelle Sojuz.
Oggi una delle navette è esposta a Mosca nel Parco Gorky sulle rive della Moscova, mentre quella che compì l’unico volo spaziale è rimasta danneggiata nel 2002 dal crollo dell’hangar in cui si trovava. Di quel sogno interrotto però qualcosa è rimasto: i vettori Energia, la cui forza propulsiva ancora oggi consente di inviare i rifornimenti alla Stazione Spaziale Internazionale ISS.