Comproprietari dell’utopia

Da Aoirghe

“Alla fine gli uomini rientrano dal lavoro. Questa è la loro ora; e la partita deve finire. Sì, perché la giornata trascorsa a trattare la vendita di quell’immobile con una ricca vedova dal cervello di gallina non ha giovato ai nervi del signor Strunk, e l’umore del signor Garfein, con tutte le tensioni che gli procura la sua azienda – progetta e installa piscine -, è incerto. Loro e gli altri padri non sopportano più il rumore. (La domenica, il signor Strunk giocherà a palla coi figli; ma questo rientra nei suoi programmi di educazione fisica; è una cosa carina, sana e pochissimo divertente). Ogni finesettimana c’è una festa. I giovanissimi vengono incoraggiati a uscire, ballare e amoreggiare, anche se non hanno finito i compiti; perché i grandi hanno disperatamente bisogno di rilassarsi, senza che nessuno li veda. E ora la signora Strunk in cucina prepara le insalate con la signora Garfein, e il signor Strunk sistema il barbecue nel patio, e il signor Garfein attraversando il terreno incolto con un vassoio di bottiglie e lo shaker annuncia trionfalmente, con tono da marine: <>. Due, tre ore più tardi, dopo i cocktail e le sghignazzate, le storielle zozzissime, i pizzicotti più o meno furtivi sui sederi delle mogli altrui, le bistecche e la torta; mentre le ragazze – come la signora Strunk e le altre continueranno a definirsi anche a novant’anni – lavano i piatti, sentirete il signor Strunk e gli altri mariti ridere e parlare sulla veranda, il bicchiere in mano e la lingua impastata. Per il momento hanno dimenticato i problemi di lavoro. Sono seri e soddisfatti. Anche l’ultimo tra loro è comproprietario dell’utopia americana, il regno della buona vita in terra – grossolanamente scimmiottato dai russi, odiato dai cinesi, che pure sarebbero dispostissimi a crepare di fame per generazioni nella disperata speranza di assaporarlo anche loro. Oh certo, come no, il signor Strunk e il signore Garfein sono orgogliosi del loro regno. Ma perché allora le loro voci sembrano quelle di ragazzi che si chiamano a vicenda mentre esplorano una caverna buia e sconosciuta, perché risuonano sempre più forti, sempre più aggressive? Sanno di avere paura? No. Ma ne hanno molta. Di cosa? Hanno paura di ciò che sentono aggirarsi nell’oscurità intorno a loro, di ciò che da un momento all’altro può emergere nella luce inequivocabile delle loro lampade, e che non si potrà più ignorare né cancellare con una spiegazione. Hanno paura del nemico che non entra nelle loro statistiche, della gorgone che rifiuta la chirurgia plastica, del vampiro che beve sangue con schiocchi rumorosi, incivili, della bestia nauseabonda che non usa i loro deodoranti, dell’innominabile che malgrado tentino di zittirlo insiste a dire il suo nome. Con tutti i mostri che ci sono, pensa George, hanno paura del più piccolo: di me.”

Cristopher Isherwood, Un uomo solo