Con chi ce l’ha Matteo Marchesini? Una replica di Lorenzo Leone

Creato il 16 marzo 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura

Gadda e Manganelli

Di LORENZO LEONE

Con chi ce l’ha Matteo Marchesini?
Con chi ce l’ha Matteo Marchesini nel suo ultimo articolo apparso ieri su Il Foglio (con il titolo Smisurati ombelichi. Gli insulsi scrittori-mondo e i loro adepti-lettori)? Mi dicono che ce l’ha con Moresco e, se così fosse, avrebbe scelto una via piuttosto obliqua per “aggredirlo”. Ma che ce l’abbia o no con Moresco, l’articolo di Marchesini è, a mio parere, piuttosto deboluccio, informato, come mi sembra, a un paio di tesi assai discutibili.
La prima tesi è sociologica o pseudosociologica. Vi sarebbero oggi lettori manichei, idolatri, fanatici che avrebbero preso il posto dei lettori morbidi, equilibrati e studiosi di un tempo. La retorica dei bei tempi andati è un vizio senile e non sarà un caso che il trentacinquenne Marchesini si senta un po’ il «fratello anziano» di tutti quei suoi giovani interlocutori, la cui capacità di lettura somiglierebbe all’arrendevolezza televisiva, che inalberano Moresco o Derrida, Bolaño o Von Trier… Il fanatico ispira simpatia o antipatia; e Léon Bloy si commuoveva pensando a quel granatiere che alla Beresina piangeva calde lacrime «per aver visto Napoleone marciare fra gli spettri della sua vecchia guardia»; ma duro fatica a credere che un così gran numero di anime invasate si sia precipitato su Marchesini autorizzandolo alle generalizzazioni del tipo riferito sopra. Ma passiamo senza indugi alla seconda tesi.
Anche la seconda tesi, ho detto, appare discutibile. Marchesini la definisce “antropologica” e le virgolette sono d’obbligo. Vi sarebbero autori – una famiglia di autori – «aprioristicamente “smisurati”» che «eludono ogni limite, divorano ogni alterità, e in ogni loro pagina o sequenza restituiscono un “etimo” monolitico e replicabile all’infinito». Sono gli «scrittori-mondo»: «Funamboli di parola e immagine – scrive Marchesini –, non si accontentano di esibire lo scarto tra scrittura e mondo, o la virtualizzazione del reale, o il labirinto bugiardo di sconfinati universi paralleli, o l’esplosione del linguaggio, la crudeltà ubiqua, il destino manieristico dell’arte». E se non si accontentano di questo, che cosa faranno questi scrittori-mondo? Mimeranno, dice Marchesini, la propria poetica di continuo, evocando, con la loro opera, «la gigantesca cornice di un quadro che manca, o viceversa un’informe materia senza confini, oppure una dichiarazione d’ipercoscienza priva di oggetto». Genereranno, in altre parole un falansterio di parole, una prigione di parole – un libro-mondo che, a guardar bene, è il frutto della loro egolalia, un guardarsi l’ombelico, va da sé, smisurato.
Il problema dei Derrida, dei Manganelli, dei Bolaño, dei Moresco ecc., sarebbe dunque questo: il volere la totalità, il volerla a tal punto da barattarla con un surrogato, il surrogato del libro-mondo, del libro replicabile all’infinito. Lo scrittore invece – come il critico o il semplice lettore, d’altra parte – dovrebbe sapere che bisogna essere – e che bisogna scrivere – «qualcosa di parziale e limitato: cioè qualcosa che si possa criticare punto su punto senza venir rinviati a una sempre più improbabile giustificazione mistico-pulp della Poesia».
Ora, scrivere qualcosa di parziale e di limitato è davvero il compito dello scrittore, del narratore e del filosofo? Non è questo piuttosto il mestiere del cronachista o del cronista? Se lo scrittore non ci offre il mondo, tutto il mondo, beninteso, dalla propria prospettiva; se, il mondo, non lo avrà scritto e riscritto, racchiuso in un libro, non avrà sic et simpliciter fallito? Ma forse è proprio questo che Marchesini imputa alla pletora di autori citati tesi (Bernhard, Busi, Gadda, Derrida, Lynch, Von Trier, Moresco, Wallace e Bolaño): il mancare di una prospettiva, di un punto di osservazione.
Benissimo, apriamo “Della grammatologia”. Non è chiaro lì il punto di vista di Derrida? Non è chiaro da quale luogo guardi all’”Essai sur l’origine des langues”, a Rousseau, alla scrittura ecc.? È solo un esempio e potrei anche dire che in “Hilarotragoedia” l’angolo da cui guarda Manganelli è quello di un Cioran dotato di un irresistibile senso dell’umorismo. Dov’è, qui e altrove, il rinvio alla giustificazione mistica? Dove l’orrendo regressus ad infinitum? Detto altrimenti, vogliamo da Marchesini degli esempi, delle dimostrazioni, delle prove; vogliamo dal Delimitatore delle delimitazioni…
Si può muovere a Marchesini l’accusa che rivolge ai suoi impossibili (per dirla con Nietzsche): stando molto sulle generali – e cioè generalizzando – potrebbe prolungare il suo pezzo per parecchie pagine e «senza incontrare attriti esterni». Ma soprattutto Marchesini pretende che l’occhio del suo lettore diventi un po’ lipposo fissando lo sguardo a quelle sue tesi generalissime e tirate per i capelli; e soprattutto, infine, che non si domandi troppo con chi ce l’abbia il loro protocollare “ostensore”. Dunque: con chi ce l’ha Marchesini?

Lorenzo Leone
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