foto:flickr
Si fa presto a parlare di cultura. C'è chi dice che la cultura non si mangia, altri estremizzano sottolineando che "con" la cultura non si mangia, dimenticando, magari chi ci vive. Sarà pur vero che senza soldi non si fa cultura, ma alla fine io credo che in qualche modo a questo pane è difficile rinunciare e si tentano strade parallele. Ero al primo anno di università e grazie ad un inatteso risultato alla matura, avevo avuto un posto gratuito al Collegio Universitario di Torino. Uscito quindi per la prima volta dal guscio di una cittadina di provincia, dove al massimo avevo visto la Corazzata Potionkin al circolo del cinema del sabato mattina (con conseguente dibattito, naturalmente), mi ritrovavo di fronte ad un'offerta vasta e stimolante di musei, arte e spettacoli a cui non ero abituato. Mi attirava soprattutto il teatro, ambiente e fenomeno a me ancora completamente sconosciuto. Che però costava un sacco, cosa che pareva tagliar la testa al toro. Fui così coinvolto da un compagno di collegio, un napoletano scafato alle difficoltà della vita, che mi aprì le porte del gruppo della clack del teatro Alfieri. Si andava una mezz'oretta prima dell'inizio dello spettacolo e in uno stanzino, un anziano, almeno così mi sembrava, capoclack ci dettava le malizie del mestiere. La mano a conchiglia per dare un colpo secco e il più possibile ritmato e rumoroso, ben distinguibile dalla massa che si sarebbe subito posta al seguito, scatenando un applauso fragoroso. I momenti topici per il battimani, dalle entrate in scena della prima donna, ai punti chiave dove l'attore, al termine di un pezzo importante, disponeva una acconcia pausa in attesa dell'applauso; la ripresa quando, alla passerella finale, l'approvazione del pubblico, che si stava alzando per andarsene a casa, sembrava scemare prima delle varie uscite previste della compagnia. L'ordine era di non sprecare le forze quando la folla faceva il suo dovere, guidare invece il gradimento quando l'intensità dello stesso era sul punto di spegnersi, sempre con apparenza casuale, non preparata. Il capo avrebbe dato l'avvio con un paio di colpi ben scanditi e noi dietro, si era in cinque o sei, a rendere corposo l' avvio, poi le cose marciavano da sole. Lui stesso pensava a dispensare qualche "bravo" qua e là al momento opportuno. Così mi feci tutta la stagione, affascinato da quel contatto con la parola viva, così lontana dalla patinatura della celluloide, così reale e vicina, così coinvolgente come mai avrei pensato. Mi godetti Gassman, Poli giovanissimo, Foa e tanti altri. Fui stravolto da Beckett e Ionesco, ammirato da Molière, stordito da Shakespeare e come mi parve affascinante la leggerezza di Goldoni che nelle letture a scuola pareva così insipido. Un orgia di sensazioni mai provate insomma. L'unico problema era quello di cercare di sfilarsi, mettendosi in fondo alla coda degli applausi finali, sfuggendo alle occhiate del cerbero che ci controllava. Il Collegio chiudeva a mezzanotte e venti e anche correndo, se arrivavi dopo, ti toccava andare a dormire alla stazione. Se ti è piaciuto questo post, ti potrebbero anche interessare: Non si vive di sola cultura.Il mistero delle pietre nere.Flussi e riflussi.