L’unico contatto con l’esterno è un quaderno rosso, un diario che Concetto trova nell’armadio della sua stanza, che non sa da chi sia stato scritto ma che si svolge come una lunga lettera a Gesù, una dolorosa narrazione fatta di due tragedie che però sembrano appartenergli in qualche modo. La storia nel diario è quella di un altro fanciullo (Giovanni Arezzo) che racconta le sue vicissitudini a Gesù perché a lui chiede aiuto e vorrebbe, come Concetto, trovare delle spiegazioni, delle rassicurazioni. La religione e la fede, insieme alla violenza e alla negazione, sono i cardini di tutta la vicenda, una croce enorme appesa sopra il letto denota l’oppressione di dogmi, di precetti che non sono facilmente comprensibili a un ragazzino e il prete (Agostino Zumbo), figura per antonomasia vista come guida spirituale divulgatrice della parola di Dio, è solo portatore di distruzione e con disonestà abusa della sua autorità morale. Eccelsi i due giovani attori, Giovanni Arezzo e Francesco Maria Attardi, performance difficili che si intrecciano in un discorso volutamente nebuloso, ricco di colpi di scena fino alla fine, due personaggi che sembrano essere uno, un alternarsi sempre più indistinto per un destino tragicamente identico.
Interessante anche l’interpretazione di Agostino Zumbo che, nei panni del prete non degno del ruolo che riveste, diventa una sorta di esecrabile burattinaio nella vita dei due giovani fino a condizionarne l’esistenza. Un tema, quello trattato in “Concetto al Buio”, di intenso spessore morale, tanta rabbia raccontata però con estrema delicatezza, una storia che disturba, che colpisce l’animo di chi la guarda, una storia che coinvolge sin da subito lo spettatore portandolo dentro questa atmosfera confusa, squarci di una realtà soffocante dove ogni parola è fonte di una verità sconosciuta che cerca con fatica di emergere dal silenzio, un’emozione percepibile, un vortice che lascia al contempo un senso di sgomento e di soave innocenza. Il linguaggio usato nella mise en scène è semplice, un diario di un adolescente scritto in modo diretto dove la lingua italiana viene frequentemente combinata con quella dialettale, un esempio tipico è la parola “scancellare” che viene più volte ripetuta anche per accrescere questo desiderio di dimenticare tutto il male, ogni fatto noto ma mai riconosciuto. Pièce interamente siciliana, degna di considerazione per il talento dei suoi protagonisti e per la storia così ben rappresentata tanto da creare un coinvolgimento empatico tra pubblico e attori, che meriterebbe, proprio per questo, di andare in giro per tutti i teatri italiani in modo da poter far conoscere e apprezzare un esempio di ottimo teatro sociale.
I tre scatti inseriti nell’articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Scenario Pub.bli.co. di Catania
Fotografie di Damiano Schinocca