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Conferenza su “la crisi in africa”: resoconto e foto

Creato il 12 novembre 2012 da Eurasia @eurasiarivista
:::: Redazione :::: 12 novembre, 2012 :::: Email This Post   Print This Post CONFERENZA SU “LA CRISI IN AFRICA”: RESOCONTO E FOTO


 
“LA CRISI IN AFRICA – IL CASO COSTA D’AVORIO”, SABATO 10 NOVEMBRE A BRESCIA
 
Nel quadro internazionale determinato dalla contrapposizione tra l’unipolarismo statunitense e il multipolarismo in via di definizione, l’Africa rischia di diventare, per ragioni economiche e geostrategiche, la posta in gioco, se non il campo di battaglia, tra il sistema occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti e le potenze eurasiatiche: Russia, Cina, India.

Di fronte ad un’eventualità di questo genere, e comunque per acquisire un ruolo determinante nel mondo multipolare che sta prendendo forma, l’integrazione continentale dell’Africa rappresenta una necessità storica, alla quale le classi dirigenti africane sono chiamate a dare una risposta.

Appare verosimile che tale integrazione si configuri su base regionale, seguendo tre direttrici principali, rappresentate rispettivamente dal Mediterraneo, dall’Oceano Indiano e dall’Oceano Atlantico.

L’attivazione di un rapporto di cooperazione economica e strategica tra il Nordafrica e l’Europa; l’attuazione della Dichiarazione di Delhi per quanto riguarda i rapporti dell’Africa con l’India; il perseguimento di una cooperazione strategica tra l’Africa e l’America indiolatina: lo sviluppo di queste tre direttrici favorirebbe la coesione dei tre grandi poli regionali e renderebbe possibile l’integrazione del Continente africano.

Tuttavia l’Africa stenta a concepirsi come entità geopolitica unitaria e quindi a trovare una sua posizione.

Gli ostacoli che si frappongono all’integrazione continentale africana sono dovute a cause molteplici: alla frammentazione politica in più di cinquanta entità statali modulate secondo il paradigma occidentale, all’incapacità delle classi dirigenti locali di gestire i vari tribalismi in una logica continentale o almeno regionale, soprattutto agli appetiti occidentali, grandemente aumentati in questi ultimi anni in virtù della politica africana attuata dagli USA e dal suo alleato regionale, Israele.

Quanto agli interessi cinesi, russi e indiani, essi hanno una valenza diversa, che a lungo termine può agevolare l’inserimento dell’Africa nel sistema multipolare, trasformandola nel terzo polo del grande spazio euro-afro-asiatico.

Con l’inizio della prima amministrazione Obama, gli USA hanno intensificato la loro politica estera nel sud del pianeta, rispettivamente nell’America meridionale e in Africa, per impedire la nascita di un asse tra i due continenti.

La penetrazione statunitense in Africa è per gli USA un passaggio obbligato, dovuto a tre ragioni principali.

La prima ragione è relativa alla questione energetica. Secondo uno studio commissionato nel 2000 dal National Intelligence Council ad alcuni esperti, nel 2015 gli USA si aspettano di poter usufruire di almeno il 25% del petrolio proveniente dall’Africa.

La seconda ragione è d’ordine geopolitico e strategico. Washington ha scelto l’Africa quale spazio di manovra da cui rilanciare il proprio peso militare sul piano globale, al fine di contendere alle potenze asiatiche il primato mondiale. In questa iniziativa, Washington intende coinvolgere l’Europa.

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La terza ragione è d’ordine preventivo. Gli USA vogliono inficiare l’asse sud-sud, avviato nel 2006 ad Abuja (Nigeria), riconfermato nel 2009 ad Isla Margarita (Venezuela) e attualmente in corso di definizione tra molte nazioni africane e sudamericane.

Gli strumenti di penetrazione che gli Stati Uniti hanno adottato per controllare lo spazio africano sono di tre tipi.

Uno è d’ordine militare e consiste nell’AFRICOM. Sul piano militare, la penetrazione statunitense pare privilegiare, come testa di ponte per neutralizzare il Sudan e la Repubblica Democratica del Congo, l’area costituita da Tanzania, Burundi, Kenya, Uganda e Ruanda. Ricordiamoci che il controllo dell’Africa orientale costituisce un importante tassello nella strategia statunitense per l’egemonia sull’Oceano Indiano.

Un altro è d’ordine economico-finanziario. Si veda il caso delle sanzioni al Sudan e l’ingerenza del FMI e della BM nei rapporti tra la Repubblica Democraticadel Congo e la Cina.

Un terzo strumento è relativo alla strategia di comunicazione ed è esemplificato dai discorsi di Obama del Cairo e di Accra.

Interessante ricordare che cosa Obama disse ad Accra il 13 luglio 2009. “Il destino dell’Africa è in mano agli africani (…) La srtoria è dalla parte di questi coraggiosi africani, e non di quelli che usano i colpi di Stato o cambiano la costituzione vigente. L’Africa non ha bisogno di uomini forti, ma di istituzioni forti”.

In Costa d’Avorio c’erano le istituzioni forti – c’era il Consiglio Costituzionale – ma sono state calpestate e migliaia di Ivoriani sono stati massacrati.

Obama, il Premio Nobel per la Pace, non ha attuato un intervento militare e diretto, ma ha appoggiato il piano subimperialista di Sarkozy, in cambio di concessioni economiche in Costa d’Avorio e della costruzione della più grande base militare statunitense in Africa.

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Col colpo di Stato del 10 aprile 2011,  il Presidente legittimo Laurent Gbagbo è stato deposto, sequestrato e deportato al famigerato carcere dell’Aja, dove è accusato di crimini contro l’umanità.

Il golpe, ordito con la complicità delle Nazioni Unite, ha avuto lo scopo di imporre un presidente collaborazionista, che garantisse alla Francia e agli Stati Uniti il controllo monopolistico sul paese più ricco dell’Africa occidentale, esportatore di risorse di oro, petrolio e cacao e agevolasse il controllo strategico di un’area che è fondamentale per l’egemonia statunitense sul continente africano.

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La destabilizzazione della fascia del Sahel è stata accelerata dall’aggressione occidentale contro la Libia, i cui effetti catastrofici hanno prodotto e continuano a produrre conseguenze in tutta la regione.

Il caso più evidente è quello del Mali, dove alla ribellione dei Tuareg ha fatto seguito il colpo di Stato del 22 marzo scorso, quando, appena un mese prima delle elezioni presidenziali, il capitano Amadou Yaha Sanogo e i suoi uomini hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale nella capitale Bamako. Non è un particolare secondario il fatto che il capitano Sanogo abbia ricevuto una formazione militare professionale negli USA, dove ha partecipato al programma di Addestramento e Formazione Militare Internazionale d’America, promosso dal Dipartimento di Stato. (Lo ha dichiarato al “Washington Post” il rappresentante americano degli Affari Pubblici Patrick Barnes).

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Il 6 aprile i ribelli tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA) hanno proclamato unilateralmente l’indipendenza del Mali settentrionale, provocando il caos nel nord del paese (Gao, Kidal e Timbuctù). Il mancato riconoscimento da parte dell’Unione Europea, dell’Unione Africana e dell’Algeria hanno fatto precipitare il paese nell’isolamento diplomatico.

Yves Bonnet, che è stato direttore del servizio d’informazioni del Ministero degl’Interni francese, in un’intervista al quotidiano algerino “Al Akhbar”, ha accusato Sarkozy di essere responsabile della situazione che si è creata nel Mali. “L’Africa – ha detto – è oggetto di perturbazioni sempre più pericolose per effetto del caos che è stato creato in Libia, i cui responsabili sono ben noti: la NATO e la Francia. (…) La Libia era un paese ben governato, che aveva realizzato progressi sociali notevoli; i Libici erano tra i popoli più prosperi del Maghreb e conoscevano l’arte di trattare con gli altri”.

Che dietro la ribellione del MNLA ci fosse il governo di Parigi, interessato ad avere il controllo dei giacimenti di uranio e petrolio, è stato d’altronde confermato dallo stesso Sarkozy, il quale in un’intervista ha affermato la necessità di “dialogare” e “lavorare” coi Tuareg per conceder loro “un minimo di autonomia”.

Sarkozy ha affermato che la Francia è pronta “a dare una mano”, ma per ora ritiene preferibile delegare la Comunità economica dell’Africa occidentale, che è guidata dal presidente golpista ivoriano Ouattara.

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La Francia, che vuole legittimare la sua presenza militare nella regione, ha già battuto alla porta dell’UE a Bruxelles per cercare solidarietà e sostegno. Il progetto è quello di istituire una “missione di sicurezza” nel Niger, che ufficialmente dovrebbe occuparsi della formazione delle forze di sicurezza locali per la lotta contro il terrorismo e il crimine organizzato.

Questa intrusione militare costituirebbe uno sviluppo della presenza militare francese, che a partire dal 2010 è stata notevolmente rafforzata sia nel Niger, sia nel Mali, sia in Mauritania.

Il disegno francese è stato vivamente criticato dall’Algeria, che si sente accerchiata e teme di fare la fine della Libia. In ogni caso, il caos nel quale si trova il Mali rischia di coinvolgere anche l’Algeria, che, rimasta finora al riparo dai movimenti eversivi nel Nordafrica, adesso vede a rischio di destabilizzazione la sua parte meridionale. Un gruppo terroristico (lo stesso che è ritenuto responsabile del rapimento di Rossella Urru) ha attaccato la sede del Consolato algerino a Gao, nel nord del Mali, ed ha sequestrato sette persone, tra cui il Console. Dopo la dichiarazione d’indipendenza proclamata dai ribelli che controllano la regione dell’Azawad, l’esercito algerino è stato posto in stato d’allerta lungo la zona di confine col Mali. Il governo di Algeri ha fatto sapere che l’integrità territoriale deve essere garantita a tutti i costi e che esso non riconoscerà la secessione, dati gli stretti legami del MNLA con Al-Qaida nel Maghreb Islamico.

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Per quanto riguarda in particolare la Cina, la capillare presenza cinese in Africa è ormai un dato di fatto. Oggi il Continente africano rappresenta uno – se non addirittura il più importante – degli obiettivi strategici per l’economia cinese. Non c’è settore produttivo o paese africano che sfugga all’attenzione cinese, se si escludono quei pochissimi Stati che non riconoscono la Repubblica Popolare Cinese (Burkina Faso, Gambia, Sao Tomé e Principe, Swaziland).

Al fine di sostenere le necessità di approvvigionamento energetico del proprio tessuto industriale, la Cina ha intessuto con l’Africa una fitta rete di relazioni politiche ed economiche che le consente di approvvigionarsi di petrolio africano. In cambio, la Cina sostiene e sviluppa le realtà imprenditoriali africane realizzando progetti infrastrutturali e predisponendo canali di finanziamento.

Davanti a tale fenomeno, ci si chiede se gli stretti legami economici tra Cina ed Africa costituiscano un’opportunità per gli Stati africani o se invece, ancora una volta, la corruzione politica delle classi dirigenti locali porrà un limite allo sviluppo economico dell’Africa.

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 In Africa, da una ventina d’anni si assiste ad un complesso di movimenti geopolitici che uno studioso francese, François Thual, ha chiamato “decolonizzazione della decolonizzazione”.

“All’inizio degli anni Novanta, guerre, guerre civili, rivolte e guerriglie hanno rimesso in causa le vecchie frontiere coloniali in maniera generale. Questa liquefazione dei quadri territoriali ereditati dalla decolonizzazione, fondata su rivendicazioni etniche e sulla loro strumentalizzazione, caratterizza le lotte per l’egemonia che contrappongono interessi francesi e interessi inglesi in questa parte del mondo”. “Queste tensioni – scriveva Thual una decina d’anni fa – sono destinate, prima o poi, a comportare dei cambiamenti territoriali, sia attraverso l’annessione sia attraverso la formazione di nuovi Stati. La combinazione di quei tre fattori dei conflitti africani che sono l’etnismo, la rivalità strategica fra grandi nazioni e la lotta per il controllo delle materie prime (petrolio, uranio, metalli preziosi, diamanti, legname ecc.) rende fragile la quasi totalità dei paesi situati a sud del Sahara”.

Per quanto riguarda l’ex Africa francese, già dieci anni fa Thual prevedeva che dalla rivolta tuareg sarebbero nate nuove entità statali nei territori del Mali e del Niger.

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