È molto probabile che le infinite bozze di cui ho riempito cassetti su cassetti resteranno tali fino alla fine dei tempi. La missione di cui mi sono auto-incaricato è molto seria ma a tutt’oggi sembra destinata a un fatale fallimento. Sono abbastanza nervoso quando parlo di queste cose, tanto da non riuscire a produrre un ragionamento serio e misurato sulle cause della mia catastrofe personale. Ho trasferito anima e corpo in quello che ho scritto, ma le cose vanno inquadrate sempre in un’altra prospettiva. Nel corso di tutti questi anni ho letto straordinari racconti intorno a personaggi sfortunati e senza energia, emarginati solitari che si aggirano nei viali periferici della vita, meravigliosi perdenti che collaboravano con le loro sconfitte alla modificazione del mondo. Io ho l’impressione di non essere neppure questo. Sto per terminare un altro romanzo, un’altra necessità inclassificabile, un’altra valigia piena di parole che andrà ad ammassarsi sul tapis roulant delle mie rovine, che produrrà un’altra infinita serie di garbati rifiuti, di lettere precompilate, di irremovibili silenzi. Ebbene sì, adesso lo sapete, sono tra quelli che Alberto Arbasino ha definito “petulanti estensori di manoscritti”. Ma come si sopravvive in questa folle ostinazione a scrivere storie che non vedranno mai la luce? Qual è la maschera più adatta per uno scrittore che non esiste al mondo per nessuno?
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