Sei mesi fa ero a Genova. Pioveva, il bel sole che risplendeva sulle Cinque Terre sembrava già un lontano ricordo e io, dopo un mese nel capoluogo ligure, ero pronto a proseguire lungo la costa del Mediterraneo. Avevo in mente un progetto ambizioso, completare il giro del Mare Nostrum senza ricorrere all’aereo. Non ce l’ho fatta.
Quando tre anni fa risalivo l’Africa, prima di ogni tappa mi ritrovavo a studiare la cartina per indovinare il percorso meno pericoloso, quello che mi avrebbe permesso di fare lo slalom tra territori in guerra e vuoti istituzionali. Ma la costa del Mediterraneo è una linea sottile, non ci sono margini di scarto. Arrivato in Marocco mi sono scontrato con la prima parete invalicabile: il confine algerino.
I rapporti tra Marocco e Algeria sono tesi da anni. Sulla diffidenza tipica che si instaura tra vicini sono intervenute una diversa interpretazione della legge coranica (più liberale ed elastica in Marocco, ancorata alle tradizioni in Algeria) e alcune dispute territoriali. Il risultato è che il confine terrestre tra i due paesi è impenetrabile, e visto che il mio sogno on the road si infrangeva così mestamente, ne ho approfittato per risparmiarmi il costo del prezioso visto algerino (105 euro per due settimane!) e ho preso un aereo fino a Tunisi.
Di fronte alla Tunisia un’altra barriera insormontabile: la tormentata Libia, più che mai scossa dalla guerra civile e preda di lotte tribali e ambizioni militari. A Tunisi avevo conosciuto Ilaria, che proprio a Tripoli lavorava nell’industria petrolifera come interprete. Aveva lasciato la Libia a maggio perché la situazione era divenuta insostenibile: “La gente ha paura ad uscire di casa, polizia ed esercito sono incapaci di difendere la popolazione e mantenere l’ordine, i giovani non hanno fiducia né rispetto per l’autorità nazionale, chi aveva preso le armi durante la rivoluzione non le ha mai restituite, bande armate divise per settore si contendono il potere, uomini armati sotto l’effetto di sostanze stupefacenti pattugliano le strade e i centri sensibili.”
Un altro aereo mi ha così scaraventato in Egitto, dove si stavano tenendo le elezioni presidenziali. Il Cairo era un covo di tensioni e pulsioni contrastanti, ma l’esercito manteneva l’ordine – spesso a scapito delle libertà civili di cittadini e manifestanti – e pur con qualche brivido ho potuto assistere alla probabile fine della rivoluzione egiziana in relativa sicurezza.
Entrare in Israele sarebbe stata un’altra sfida: il confine oltre il Sinai viene aperto a ritmi irregolari e si affaccia sulla Striscia di Gaza, da cui uscire è difficile almeno quanto entrare. Inoltre il timbro del Sudan sul mio malandato passaporto mi avrebbe causato non poche difficoltà, così come quello di Israele una volta che avessi voluto proseguire in Libano. Così ho cercato una nave a Port Said diretta verso Beirut, ma i collegamenti marittimi per il trasporto di persone sono stati sospesi a causa della crisi siriana. Conclusione: un altro aereo.
Il Libano è stata un’esperienza intensa e affascinante, scandita sul finire dal drammatico clamore delle bombe. Uscirne sarebbe potuto esserlo ancora di più. Circondato da Siria e Israele, la nazione che fino agli anni Settanta era una meta turistica alla moda, molto amata da europei e americani, vive oggi in una condizione di isolamento terrestre. Avrei potuto raggiungere Cipro in nave e da lì sbarcare in Turchia, ma mi rendevo conto di aver ormai tradito il mio progetto originale e abbandonare il mondo arabo in maniera così furtiva mi sembrava un’aggravante inutile. Così ho preso un ultimo aereo, e sono tornato a Casablanca per approfondire il mio studio dell’arabo e la mia conoscenza del Marocco.
Tra poche settimane tornerò in Italia (questa volta non in aereo, fosse l’ultima cosa che faccio tornerò a casa in nave!), e ripensando al mio viaggio non posso fare a meno di provare un po’ di rammarico. Ma non per le trasformazioni a cui è stato soggetto il mio itinerario, il mondo può ben fare a meno di un altro occidentale viziato a zonzo sulle sue strade meno sicure e io riscatterò il mio impegno intorno al Mediterraneo appena ne avrò la possibilità.
Il rammarico che provo è rivolto ai paesi che ho visitato. In sei mesi ho assaporato paesaggi e tradizioni antichissime, ho approfittato della straordinaria ospitalità dei popoli arabi e sono stato imbrogliato in un paio di occasioni dagli stessi sorrisi che mi aprivano le porte delle loro case. Ho vissuti il mese del Ramadan con i miei amici musulmani e sempre con loro ho ballato in discoteca bevendo birra e fumando hashish. Ho rischiato qualche infortunio, ma per ogni pugno in faccia un’altra mano mi veniva rivolta in soccorso. Ed è una catastrofe inenarrabile che oggi come non mai questi popoli siano frammentati da sanguinosi conflitti che non sembrano trovare soluzione. Una catastrofe che ci riguarda da vicino, perché la loro storia è anche la nostra, le loro sconfitte sono i nostri insuccessi e le nostre colpe.
Non sono rammaricato per il mio viaggio, dicevo, perché alcuni confini sono fatti per non essere attraversati. Non subito almeno. L’idea di affrontare qualche pericolo per divenire il testimone della storia in un paese lontano è un richiamo a cui come giornalista faccio fatica a resistere, ma se la mia maldestra presenza non è sufficiente a svolgere qualcosa di utile e in più mette in pericolo, oltre alla mia, altre vite costrette a intervenire per proteggermi, allora è decisamente il caso di tracciare la linea.
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