E penso ai giorni prima della scadenza, spalmata sul divano, che tentavo d’immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco, credendo di sapere. E a come clamorosamente mi sbagliavo. E penso al ritorno dall’ospedale con la nana urlante. Quando la casa, pur essendo sempre la stessa, mi appariva così incredibilmente diversa.
E poi lei. Che sembrava così piccola e indifesa. Poi apriva un occhio, ti guardava di sghembo e prendeva a urlarti in faccia tutto il suo disappunto per averla tirata fuori dal quel posto caldo ed accogliente che era la tua pancia. E allora quella piccola e indifesa eri tu. Che non sapevi cosa fare e non volevi chiedere aiuto. Che ti sentivi sola e un po’ incompresa. Più di tutto incapace. Qualche volta persino un pochino infelice.
Non per tutti è così, s’intende. Certe mamme raccontano i primi giorni a casa col marmocchio come una vera estasi, na’ mano santa. La piena realizzazione di quello che da sempre avevano sognato.
Ecco, per me non proprio. Non erano facili quei giorni in cui la mia realizzazione si era smarrita, insieme alla mia serenità, in quel cumulo di cacche, tutine e pannolini. Eppure ci provavo. Mi obbligavo ad uscire con la Marmocchia anche se fuori nevicava, lei urlava senza tregua, i punti tiravano e mi sentivo attraente come un mocio vileda rimasto a macerare per giorni nel secchio dell’acqua sporca. Così, tanto per rendere l’idea.
E poi invitavo gente, anche quando la casa era tutto fuorchè presentabile. Bè, non proprio gente. Mamme per lo più. Gli unici esseri viventi in grado di destreggiarsi tra il disordine nella mia vita e nel mio appartamento, senza scandalizzarsi nemmeno un pochino. D’altra parte nella loro vita, e nel loro appartamento, regnava lo stesso tipo di confusione. Solo loro potevano capire.
Ci preparavamo le tisane al finocchio (quelle che ti fanno fare tanto latte) o un tè deteinato. E la complicità diminuiva l’aspetto desolato del nostro banchetto. Perché eravamo tutte nella stessa barca. Perché anche se lo esprimevamo in modo diverso, provavamo tutte la stessa cosa. E perché vedere che i marmocchi degli altri erano più piagnucoloni, insofferenti e tetta-dipendenti del tuo, era una vera boccata d’aria fresca (per le altre, s’intende, perché io potevo sfoggiare la nana più incaxxosa di tutta la comitiva. Sempre e comunque).
E insomma, tutte queste parole soltanto per dire alle future mamme: cercatevi! Confrontatevi, sfogatevi, ascoltatevi. Fatevi compagnia, sdrammatizzate, ironizzate. Unitevi! Nessuno al mondo sarà in grado di comprendervi come un’altra mamma nella vostra stessa situazione.
Cercate le altre mamme. Ai giardinetti, al supermercato, in rete, sul pianerottolo, nella vostra rubrica telefonica o tra gli indirizzi mail. Se vi sentite perse, incapaci e in gabbia, trovate un’altra mamma che sappia ascoltarvi e capirvi senza giudicarvi. Cercate chi c’è già passato e può dirvi è vero, certi giorni sono proprio una schifezza, ma poi tutto passa! e mostrarvi magari l’esempio che è vero.
Io penso (non da molto, ma lo penso veramente) che il potere dell’unione fra le mamme può molto, ma molto, di più di quello che si crede.
E a proposito di quella che (volutamente) non ho nominato direttamente all’interno di questo post, volevo segnalarvi questo nuovo sito nato proprio con lo scopo di parlare della depressione post partum. Un’occasione in più per non sentirsi sole.