Considerazioni libere (300): a proposito di una città e di una fabbrica...

Creato il 16 agosto 2012 da Lucabilli
E così l'Italia, in questa complicata estate - stretta tra la siccità e la crisi - ha scoperto Taranto e l'Ilva. A dire la verità Taranto è lì da un bel pezzo, c'era quando ancora non c'era l'Italia o meglio quando questa lunga penisola era a tutti gli effetti una parte della Grecia. Anche l'Ilva è lì da un po' di tempo: un'inezia rispetto alla storia di Taranto, ma un tempo significativo rispetto alla breve storia dell'Italia unita; lo stabilimento Italsider di Taranto fu costruito nel 1961, l'anno del centesimo anniversario dell'unità. Quella grande acciaieria fu uno dei simboli del cosiddetto "boom economico". Anche la magistratura c'è a Taranto da qualche tempo; non mi riferisco ai magistrati che amministravano la giustizia nella polis antica, ma a quelli che all'inizio degli anni Ottanta hanno cominciato a indagare sui danni che la fabbrica ha provocato a Taranto. La prima sentenza contro i padroni della fabbrica risale infatti al 1982, ma è rimasta - come succede a volte in Italia - lettera morta. Chissà se succedeva lo stesso anche nella Taranto antica?
Chi vive a Taranto, chi lavora all'Ilva, conosce bene i fumi che escono ogni giorno e ogni notte dalle ciminiere, conosce bene la polvere nera e rossastra che ricopre ogni cosa, sa che a causa di quei fumi e di quelle polveri a Taranto è più probabile morire di tumore che in altre città; tutto questo lo sa da anni e non da pochi giorni, come sembra credere l'opinione pubblica, che adesso ha appunto "scoperto" Taranto e l'Ilva. Dobbiamo ringraziare i magistrati di Taranto - e in particolare Patrizia Todisco - per averci costretto a far diventare finalmente Taranto una questione nazionale. Patrizia Todisco è andata oltre i propri poteri? Ha valicato i limiti della legge? Non lo so; forse; so comunque che senza di lei adesso parleremmo di altre cose, magari di un bel delitto. Incidentalmente è curioso notare come questa sentenza abbia risvegliato gli "spiriti animali" di chi vorrebbe limitare le prerogative della magistratura; esiste in questo paese un problema democratico e le reazioni stizzite dei ministri, che lamentano una sorta di lesa maestà rispetto ai poteri del governo fanno parte ormai di questa emergenza. 
Personalmente ci sono domande a cui non so rispondere e invidio chi in questi giorni sembra avere così inoppugnabili certezze; spero che queste convinzioni siano suffragate da dati e da prove e non dall'idea che tanto funziona tutto così e non ci sono altre possibili alternative. Non so se le malattie che adesso, in questi giorni, stanno colpendo e stanno uccidendo le persone che vivono e lavorano a Taranto dipendano solo dall'inquinamento prodotto negli anni passati o anche da quello prodotto ora dalle lavorazioni dell'acciaieria. La questione è piuttosto ininfluente per quelli che adesso sono malati e per i loro familiari - moriranno comunque - ma è rilevante, con tutta evidenza, sul piano del diritto. Naturalmente l'attuale padrone tende a scaricare la responsabilità su quello precedente - che poi era lo stato, in quel sistema complicato che erano le partecipazioni statali, figlie del corporativismo fascista - e altrettanto naturalmente gli attuali amministratori locali tendono a valorizzare quello che hanno fatto loro in questi ultimi anni. Anche il governo spiega che le attuali malattie dipendono soltanto dalla vecchia gestione. Pur ammettendo che gli attuali cicli produttivi abbiano di molto migliorato la situazione rispetto agli anni passati, il problema rimane tutto.
Per risolvere la questione della superiorità degli antichi e dei moderni, a favore di questi, Francis Bacon ammetteva che i primi potevano essere paragonati a giganti e i secondi a nani, ma dal momento che questi stavano seduti sulle spalle di quelli, il loro sguardo era capace di raggiungere e di cogliere un orizzonte più vasto. Sul caso dell'Ilva si può utilmente usare una metafora simile: le responsabilità degli "antichi" sono probabilmente maggiori di quelle dei "moderni", ma dato che questi sono saliti sulle spalle dei primi, adesso la responsabilità finale è molto aumentata e ricade su di loro. C'è un episodio che racconta Adriano Sofri, in uno degli articoli più interessanti scritti in questi giorni sulla vicenda, sulla continuità tra le gestioni dell'azienda. Poco dopo aver acquistato la fabbrica, Emilio Riva fu accusato di comportamento antisindacale per aver cercato di allontanare alcuni lavoratori; ammise che si trattava di quelli giudicati "facinorosi" nelle schedature, ovviamente illegali, fatte durante la precedente gestione, quando il padrone ero lo stato. Immagino che occorrano investimenti enormi per risanare davvero l'area o per spostare il quartiere Tamburi - come qualche esperto dice, ammettendo in questo modo che quell'area non sia più bonificabile - ma qualcuno questi soldi li deve mettere, in primis chi ha guadagnato in questi anni e pensava di farlo nei prossimi. Temo che questi costi ricadranno sullo stato, anche perché questa è la regola di sopravvivenza del cosiddetto capitalismo italiano, uno dei più parassitari del mondo: gli utili ai privati, i debiti al pubblico.
La seconda domanda a cui non so rispondere è se si possa risanare l'Ilva senza spegnere l'impianto e quindi interrompere la produzione. In questi giorni tutti dicono che l'impianto non può essere spento e anzi che il risanamento deve svolgersi mentre prosegue la produzione. Ripeto, non ho le competenze per dire qualcosa di certo su questo punto delicato, ma temo che non le abbiano neppure molti di quelli che sono chiamati a prendere questa importante decisione. Ho l'impressione che questa convinzione nasca dall'idea, tutta ideologica, che la produzione viene prima di tutto: business über alles.
Viste le cose che non so - e spero che qualcuno sappia - provo a dire la cosa che so. Il dato incontrovertibile è che a Taranto si muore. L'incidenza dei tumori nell'area del sito dell'Ilva di Taranto è maggiore del 15%, con un picco del 30% in più per quelli al polmone, rispetto al resto della regione.
In una vicenda come quella dell'Ilva inevitabilmente uno finisce per schierarsi. Come potete immaginare io - per antico pregiudizio - fatico a mettermi dalla parte dei padroni. Non ho neppure particolare simpatia per gli attori istituzionali, che sia il governo nazionale - cosa penso di loro l'ho scritto molte volte - o che sia il presidente della Puglia, che mi pare utilizzi questa vicenda per accreditarsi come interlocutore nazionale affidabile per il governo "montiano" che nascerà la prossima primavera, indipendentemente da chi sarà il nominale presidente del consiglio. Io - per antica consuetudine - sto dalla parte dei lavoratori dell'Ilva, che sono anche i cittadini di Taranto. Questo è un punto importante: non c'è una contrapposizione tra lavoratori e cittadini, perché sono le stesse persone, le stesse famiglie; chi fa nascere e alimenta questa contrapposizione - al di là dei propri scopi - è in cattiva fede. Se vivessi a Taranto io mi batterei perché l'Ilva continuasse a produrre acciaio; capisco quelle persone, il lavoro all'Ilva rappresenta il loro futuro, la possibilità di poter continuare a pagare le rate del mutuo, di far crescere e far studiare i propri figli, di curare i propri genitori anziani. Chi vive a Taranto legge i giornali come noi, vede la televisione e sa che crisi c'è in Italia e in Europa, sa che i progetti di riconversione in Italia non riescono a decollare, sa cosa è successo - o meglio, cosa non è successo - a Bagnoli. Sulla crisi di Taranto, sulle donne impiegate nel grande call center, che è la seconda "industria" della città, e sul fatto che il porto mercantile è ormai tutto in mano - come il Pireo - ai cinesi, vi rimando alla lettura dell'articolo di Sofri.
La chiusura dell'Ilva a Taranto non significherebbe soltanto la miseria per quelle famiglie che perderebbero il lavoro, ma un danno per qualche altra città del mondo. Se chiudessero gli impianti di Taranto dove nascerebbe una nuova acciaieria, in grado di sopperire a quella rilevante quota di mercato? Probabilmente in Cina o in qualche altro paese, dove non esiste la democrazia e dove i lavoratori non hanno diritti. E in Cina pensate che i nuovi padroni si preoccuperanno dei livelli di diossina emessi nell'aria o delle polveri? Probabilmente per il Gruppo Riva sarebbe un affare trasferirsi in Cina: costa molto meno corrompere il governo che deve dare l'autorizzazione e i funzionari incaricati dei controlli piuttosto che fare una vera politica industriale di risanamento. A leggere i giornali pare che si stiano allenando in Italia, per capire come si fa. Sarà che sono un vecchio internazionalista, ma i diritti di un lavoratore del Guangdong mi stanno a cuore come quelli di un lavoratore della Puglia. In questi anni troppo spesso le riconversioni in occidente sono andate a discapito di quello che è successo in altri paesi. A Pittsburgh, a Bilbao, nella Ruhr non ci sono più le acciaierie - come ripetono incessantemente quelli del Fatto quotidiano a sostegno della loro tesi - ma qualcuno l'acciaio lo sta ancora producendo, in situazioni peggiori per i lavoratori, per la salute e per l'ambiente.
Io la penso come i tarantini: non voglio scegliere tra il lavoro e la salute, voglio il lavoro e la salute. Una volta chiedevamo "il pane e le rose, il necessario e il superfluo"; alle rose possiamo anche rinunciare, ma al necessario non rinunceremo. Una volta a sinistra ragionavamo di modelli, adesso abbiamo smesso - a dire il vero, molti hanno anche smesso di essere di sinistra - però la vicenda dell'Ilva dovrebbe costringerci a riflettere un po' sui modelli di sviluppo. In questi giorni ho sentito molte sciocchezze. Ho sentito che qualcuno auspica la chiusura dell'Ilva, non solo per tutelare la salute dei tarantini, ma perché l'acciaio sarebbe un materiale vecchio e di conseguenza un'acciaieria il residuato di un sistema di produzione finito con la fine del secolo. Altri, per contro, misurano ancora la forza di un paese sui dati della produzione industriale e quindi dicono che l'Italia ha bisogno di sempre più acciaio. Questa idea valeva probabilmente per la prima metà del Novecento; ricordo che all'esame di maturità, per spiegare la crescita dell'Italia nell'età giolittiana, citai i dati, imparati a memoria, su quanto era cresciuta la produzione di carbone e di acciaio nel nostro paese. E crebbero tanto in tutta Europa che fu necessaria la prima guerra mondiale per smaltirne le scorte. Se qualcosa ci hanno insegnato le tragedie del secolo scorso è che lo sviluppo di un paese non si misura con i parametri della ricchezza, anche se in questi ultimi anni hanno fatto di tutto per farcelo dimenticare. C'è la quantità, ma c'è anche la qualità. Non è un valore positivo produrre ancora più automobili, occorre invece produrre nuove automobili, in grado di diminuire, fino ad annullare, l'emissione di gas inquinanti; non è un valore positivo continuare a costruire case - come ci ha insegnato la storia recente della Spagna - occorre invece costruire case ecologicamente compatibili e ristrutturare con questi criteri le case esistenti; non è un valore positivo produrre più acciaio, sempre di più, per superare ogni record di produzione - aspettiamo un'altra guerra per smaltire le scorte? - occorre invece produrre quello che serve e produrlo in modo che non ci siano danni irreparabili alla salute delle persone e all'ambiente. Trovo naturale che i padroni delle fabbriche e i governi che sono espressione della classe di cui fanno parte i padroni delle fabbriche - e naturalmente tutti quelli che sono a loro servizio - continuino a pensare in termini di quantità, dal momento che loro in questo modo guadagnano di più. I lavoratori e quelli che difendono i loro diritti - avete presenti i sindacati? i partiti di sinistra? qualcosa c'è ancora, altrimenti potete leggerne sui libri - devono pensare alla qualità, perché sono i lavoratori - che sono anche i cittadini - che in questo modo ci guadagnano.

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