Confesso: scrivo. Quel che è peggio, mi piace farlo.
Ma da qui a dire che la scrittura sia un piacere, andiamoci piano. Scrivere è un piacere fino a che non ci si mette in testa di volerlo fare perché predestinati all’immortalità. Da quel punto in poi, amici cari, è lavoro.
Sono d’accordo, non è esattamente questo che pensa il resto del mondo attorno a me, ma mettere insieme un testo, un racconto, un romanzo sia pur breve o un articolo è un lavoraccio che richiede molte ore inquiete e olio di gomito a litri. Bisogna costruire una trama solida, creare dei personaggi quanto meno convincenti, correggere, eliminare le ripetizioni e il superfluo (come l’avverbio che ho appena cancellato), e soprattutto mantenere una coerenza linguistica e di stile. Insomma, è un da fare senza fine.
Capita, per esempio, che l’ometto serafico e tranquillo che avevo in mente all’inizio della storia ad un tratto decida di sbarellare come la graziosa Annie quando capisce che Misery deve morire: ciò mi porta non solo a sospettare di avere tendenze schizoidi, sed etiam di non riuscire a controllare l’evoluzione caratteriale dei miei personaggi, i quali tendono a finire dove pare a loro. L’unico, misero vantaggio è il non dover andare a ripescarli in qualche commissariato dietro cauzione (anche se non metterei la mano sul fuoco che un giorno non possa accadere).
Nonostante il sacro fuoco della creazione letteraria arda alto, tuttavia, mi capita anche di restare all’addiaccio: e mentre su New York calano le prime ombre della sera (cit.) io meschina mi ritrovo preda della sindrome da pagina bianca, già mio incubo al liceo durante i compiti in classe. Niente da scrivere, vuoto assoluto accompagnato dalla subitanea capacità cerebrale di un protozoo.