Contagion (2011)

Creato il 27 settembre 2011 da Elgraeco @HellGraeco

Ricordo i video da Città del Messico, durante il manifestarsi (e conseguente panico) della H1 N1. Strade e metropolitane deserte e qualche sparuto temerario che gironzolava con la mascherina sulla bocca, cercando viveri di prima necessità, che non avrebbe trovato, perché tutti i negozi erano chiusi. Serrande abbassate, terrore del contatto umano. Eppure, lì ci sono più di venti milioni di persone, stipate chissà dove per evitare il contagio.
Questo per dire che ho trovato la messinscena di Contagion di Steven Soderbergh estremamente realistica. C’è un’epidemia. La scelta, a sentire i bollettini medici fittizi, è stata quella di renderla un pochino più grave della Spagnola, l’influenza che tra il 1918 e il ’20 uccise due decine di milioni di persone. Nel mondo ci sono oltre 6 miliardi di esseri umani che, però, spariscono, lasciandoci una splendida panoramica di luoghi pubblici deserti. E parlo così perché non c’è scenario che gradisca di più: l’apocalisse.
Lo sapete, la trovo poetica come poche. Eppure, eppure, la paura che si può respirare vedendo attrezzi ginnici lasciati a sé stessi, strade colme di spazzatura non raccolta e piazze e stazioni deserte, è bellissima sì, ma non abbastanza. Scelta registica, quella di non indugiare su luoghi simbolo, e perciò stesso evocativi? O mancanza di autorizzazione per le riprese? O, peggio ancora, esempio acciaccato di politically correct? O più semplicemente, scorciatoia?
Ci si doveva alzare alle quattro del mattino, per “svuotare” la città da ogni presenza umana. Mentre qui s’è preferito il dettaglio, qualche viuzza, quella sotto casa del blogger di turno e qualche campo profughi, allestito per l’assistenza medica e il razionamento del cibo.
Scenario globale, quindi, che finge di guardare alle sorti di alcuni protagonisti, tutti grandi nomi di Hollywood, tutti che scompaiono così come sono vissuti. Eccetto Matt Damon, e per questioni che col contagio non c’entrano nulla, tutti gli altri vengono dimenticati in fretta.

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Il contagio arriva da un virus che ha trovato terreno fertile nell’organismo di un pipistrello prima e di un maiale, dopo. Combinazione letale, ma, si sa, la nostra fine arriverà dagli animali, o dagli agenti patogeni nutriti per decenni dagli antibiotici. Saremo surclassati, nella scala evolutiva, da organismi microscopici. E andrà bene solo nel caso in cui si sopravviva, oppure se l’apocalisse che ne seguirà, sarà di tipo zombie. A quel punto ci si divertirà. Al contrario, ce ne staremo rintanati in casa, ad aspettare…
Inizio legnoso, Contagion, direi quasi didascalico. Tra esso e un documentario trasmesso al pomeriggio dalla BBC non c’è differenza, compresa la sciatta rappresentazione della fase d’incubazione: paziente zero che se ne va in giro tossendo e tanti altri piccoli sorvoli sulle persone che sono entrate in contatto con lei, che stanno male dall’altro capo del mondo. Didascalico, come dicevo, fatto solo e soltanto a uso e consumo di chi, tra gli spettatori, ancora crede che i virus siano essenze magiche da respingere con erbe odorose nel becco della maschera che abbiamo messo sul volto, come medici della peste.
Superato questo, c’è l’organizzazione, si va nei quartieri alti, il CDC, l’OMS, tutta la gente chiamata a rispondere a un’eventuale pandemia. Nulla di male. Come detto, scelta precisa raccontare la malattia con distacco medico, piuttosto che sondare (o tentare di farlo) l’emotività umana, dei contagiati e ancor di più dei superstiti.

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[c'è qualche anticipazione]

Nomi importanti: Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Laurence Fishburne, Jude Law, Marion Cotillard, Kate Winslet. A ciascuno il suo. Reazioni umane, dicevo. Da questo punto di vista, superati insopportabili intermezzi che pretendono di dimostrare violenza e non lo fanno (non basta, in effetti, far vedere l’assalto a una farmacia, peraltro senza sangue, per far capire che la situazione si fa seria; per quello è sufficiente uno sciopero a qualche altra manifestazione politica), si guarda ai comportamenti di tanti o pochi esseri umani, e li si trova credibili.
Fishburne è medico al CDC, è quello a capo della lotta al virus: quando le cose vanno male, avvisa i familiari prima che il resto del mondo. Normalità.
Jude Law è un blogger cinico (e un po’ odioso) a caccia della verità a ogni costo per abbattere i potenti, con ogni mezzo: quando le cose vanno male, pensa ad arricchirsi pubblicizzando sul proprio blog un farmaco inefficace sperando di godersela, dopo.
Kate Winslet va in giro dispensando consigli sulle corrette norme igieniche. Se la passa male, ma con lei (e con la Paltrow) Soderbergh si dimostra non tanto spietato, quanto indifferente e, di conseguenza, giusto. Non ci sono primi nomi rispetto a un’epidemia planetaria. La peste, o quel che è, non guarda in faccia a nessuno.

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Però, al di là della polemica/frecciata sulla funzione di carta stampata (obsoleta) e blogger (nuova e osteggiata), che arriva a definire il blogging come graffiti con punteggiatura, non classica scrittura come tutte le altre, la parte che più ho gradito è stata la vicenda di Matt Damon, sopravvissuto all’epidemia che, durante e soprattutto dopo, scopre il tradimento di sua moglie. Vederlo scorrere sulla fotocamera gli scatti che la ritraggono nel suo viaggio a Hong Kong, da dove tutto è iniziato, in compagnia del suo presunto amante fa un effetto strano: riporta tutto, ma proprio tutto, il contagio, i milioni di morti, la diffidenza sociale, a una dimensione umana, troppo umana, stupida, moralistica. Dove, in verità, non ci sono vere e proprie colpe da parte di nessuno. Quello di Matt Damon è un dolore ingenuo, che non ha ragione di esistere dopo eventi di tale portata distruttiva, eppure se ne sta lì, a far capolino, ricordandoci che non importa quale catastrofe affrontiamo, noi proprio non riusciamo a superare certe cose. Questo è splendido.
Per il resto, non ho trovato Contagion così avvincente, men che mai poetico. Poco spettacolare, poco divertente e persino poco pauroso. In sostanza, c’è troppa fiducia in istituzioni che dovrebbero proteggerci. Ma questa è una visione come un’altra. Ad essa si può contrapporre solo il gusto personale.
Azzeccata, ma non lirica come avrebbe potuto essere, la scelta di nullificare, per salvarsi dal contagio, i contatti umani.
E, infine, una stranezza: il momento BONCOMAT. Invenzione geniale del doppiaggio italiano. La Cotillard è francese e, nel caso non l’aveste capito subito, ci si presenta parlando quell’italiano accentato con la R, la S, la A tutte pronunciate come se stesse mangiando una baguette: ha occupato la STONSA d’albergo…
Certo, certo. La stranezza, però, è un’altra, tralasciando il fatto che questo vezzo fa ridere in momenti che dovrebbero essere drammatici, ovvero: gli inglesi parlano italiano, i cinesi pure, i francesi no, secondo il nostro mitologico doppiaggio parlano come Clouseau. E lo sappiamo… che ve lo dico a fare?

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La recensione di Lucia
La recensione di Alex


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