In un articolo dal titolo The streets of 2012, Naomi Wolf riconosce al movimentismo che si è imposto a partire dal 1999 con le contestazioni dei no global a Seattle il merito di aver avviato una profonda riflessione sul capitalismo globale e sui governi abituati ormai a funzionare in maniera autoreferenziale, senza supervisione e controllo dei cittadini. Tema ampiamente discusso anche dal Nobel per l’economia Joseph Stigiltz che in The globalization of protest, pubblicato lo scorso anno, sottolinea come la protesta globale sia riuscita a denunciare il “fallimento del sistema” trascendendo, anche grazie alle nuove tecnologie dell’informazione, i confini geografici per la diffusione delle idee. Anche Jeffey Sachs in Il prezzo della civiltà del 2012 mostra come la protesta dei millennials (di età compresa tra i 20 ed i 40 anni, progressisti, figli dei baby boomers) rivendichi con idee, strategie e strumenti nuovi una società equa e consapevole, diversa da quella dei CEO e delle loro consorterie politiche. Nonostante queste autorevoli opinioni, analisti e politici hanno marginalizzato il fenomeno, definendolo come uno strascico residuale e decadente dei movimenti del ’68. Nel caso italiano, seppur con caratteristiche differenti rispetto ai movimenti di protesta della primavera araba, degli indignados spagnoli, di Occupy Moscow e di Occupy Wall Street, il M5S si inserisce entro il variegato panorama della contestazione globale, poiché ha restituito forma ad un senso civico e ad un sentimento diffuso di indignazione collettiva e rivendica azioni di governo orientate a un profondo cambiamento strutturale del sistema sociale.
Anche in assenza di riferimenti diretti, sembrano esistere significativi punti di convergenza tra il M5S e il quadro socio-economico delineato da Stéphane Hessel nel suo Indignez-vouse! e da Noam Chomsky in Noi siamo il 99% che, seppur dalle sponde opposte dell’Atlantico, denunciano come il capitalismo finanziario (che rappresenta solo l’1% della popolazione) ormai privo di controllo, abbia trascinato in una gravissima recessione l’economia mondiale. Parafrasando Stiglitz, intervistato da Der Spiegel a febbraio di quest’anno a proposito di Occupy Wall Street, il M5S ha già vinto, perché ha posto l’attenzione sui problemi della giustizia sociale, delle disuguaglianze, della legalità e della meritocrazia, sottolineando l’inadeguatezza e il disinteresse dell’attuale sistema politico verso i problemi di interesse collettivo.
Del resto i sociologi dicono che nessun cambiamento è casuale, perché tutto quello che accade è voluto dagli uomini, dai loro bisogni, dal loro desiderio di felicità. Quello che non è possibile prevedere è la configurazione che quel cambiamento può assumere. La rivoluzione che tanto gli italiani auspicavano ha assunto le forme del Movimento di Beppe Grillo. Si potrà contestare al M5S un certo stile bohemien, una disarmante leggerezza argomentativa e un atteggiamento vagamente qualunquista. Il fatto è che il M5S è riuscito ad imporre un dibattito nel nostro Paese sulla necessità del ricambio culturale della classe dirigente, ponendosi come interlocutore diretto dei cittadini, facendosi interprete delle loro istanze e dei loro bisogni più profondi. Per queste ragioni le accuse di populismo da parte dei partiti italiani a Grillo suonano quantomeno come inopportune e inappropriate, perché per l’ennesima volta piuttosto che rispondere al loro ruolo di rappresentanza ed interpretare il dissenso politico ed il malessere sociale attraverso un progetto credibile di crescita e di rinnovamento del Paese hanno preferito ripiegare su se stessi, difendendo il proprio status e conservando privilegi e prerogative, troppo spesso peraltro perseguiti con comportamenti criminali. Anche la legge anticorruzione approvata alla Camera il 31 ottobre scorso, già definita dal CSM come “un arretramento significativo nell’attività di contrasto al fenomeno” e dall’ANM come “un’amnistia parziale”, ne è ulteriore testimonianza.