1000… 999… 998… 997… il vecchio aprì gli occhi: cosa era mai quella voce? Che fosse il figlio che lo chiamava? Oppure era il suo nipotino che si era svegliato da un incubo? 991… 990… 899… L’uomo si mise a sedere sul letto. Si sentiva molto stanco e quella mattina era come se non fosse andato neppure a dormire. 888… 887… 886… «Ma chi è?» fece lui ad alta voce. «Sei tu, Matteo? Marco? Non fatemi questi scherzi!» Il vecchio si alzò appoggiandosi al comodino e dopo aver aperto la porta ciabattò nel corridoio. Marco era nel suo lettino che dormiva abbandonato in un sonno tenerissimo, il figlio Matteo doveva essere invece già uscito per il lavoro perché la porta non era più chiusa dall’interno. 880… 879… 878… L’uomo cominciò a agitarsi… gli sembrava ora che la voce provenisse dalla sua testa. ‘Che io stia impazzendo?’ pensò mentre il cuore batteva forte in petto accorgendosi così che anche la voce aveva accelerato il conteggio. ‘Oh mio Dio, che siano… che siano… il numero dei battiti del mio cuore?’ si chiese incredulo il vecchio appoggiandosi allo stipite della cucina. ‘Che siano i battiti che mi rimangono da vivere?’ Al vecchio gli si annebbiò la vista. Fece qualche passo in avanti per andare a sedersi in cucina. Le mani gli tremavano tanto che, quando afferrò il cordless, gli sfuggì un paio di volte di mano. 840… 839… 838… Fece il numero di telefono del figlio rimanendo in attesa. ‘Accidenti… perché non rispondi? Odio parlare alla segreteria… io… io… pronto? Pronto? Matteo? Quando senti questo messaggio torna a casa subito, ti prego…’ Lo ossessionava il pensare che di lì a poco il nipotino si svegliasse e potesse trovarlo morto, proprio lì, su quella sedia. Si voltò verso la finestra con la gola che gli si stringeva. Mancava poco alle sei. Il cielo si stava schiarendo per l’alba imminente. Si ricordò di quando da bambino giocava con suo padre a costruire soldatini di cartone, di quanto fosse caldo l’abbraccio di sua madre e struggente il suo odore rassicurante. Sentì una fitta al costato e un dolore irradiante al braccio sinistro. 105… 104… 103… Pensò a quanto gli sarebbero mancate tutte quelle cose che vedeva attorno a sé. A come fosse buffa e tiranna la vita. A come non ci fosse più tempo neppure per cercare Dio in fondo alla propria anima.
«Ciao nonnino, sei già sveglio?»
«Marco! Perché non sei a letto?»
Il bambino si stropicciò gli occhi sbadigliando.
«È che ho sentito un rumore… stai bene? Te lo ricordi vero che mi avevi promesso di accompagnarmi ai giardini con la bicicletta?»
«Sì, tesoro» rispose il vecchio sforzandosi di sorridere. «Ti voglio tanto bene, sai?»
«Anch’io nonnino…»
10… 9… 8…
LO ZIO RUBEN
L’uomo inserì la chiave nella toppa e la girò più volte, quindi entrò.
«Sono molto onorato, Charles, di questo invito» disse l’altro varcando la soglia ancora incredulo.
«Il piacere è tutto mio, caro Donegall, glielo assicuro» fece quello appendendo, con composto distacco, il cappello e il cappotto. «Venga, mi dia il suo paltò e si senta a casa sua.»
Donegall si spogliò quasi meccanicamente; la sua attenzione era stata infatti catturata dall’interno di quella sontuosa villa: la volta era finemente affrescata, i mobili, i tappeti e i quadri erano preziosi e antichi, contribuendo a creare un’atmosfera calda da altri tempi. «So quanto lei sia esclusivo…» continuò riprendendosi dalla meraviglia.
«Scotch o cognac?» chiese Charles tagliando corto e inoltrandosi nella sala sotto i bagliori di un caminetto acceso. I due uomini parlarono a lungo, amabilmente, fino a notte inoltrata. Poi nel bel mezzo di una pausa si sentì una fragorosa risata provenire dalla zona notte del piano superiore.
Donegall sobbalzò nella poltrona.
«Pensavo fossimo soli…»
«Non si preoccupi mio caro, è lo zio Ruben. Dell’altro cognac?» e Charles, senza attendere un cenno di consenso, versò il liquido ambrato nel bicchiere dell’ospite. «Lo zio Ruben è il personaggio più… più eccentrico della famiglia.»
«Ah sì?»
«Non riesce mai a fare un sonno unico sino al mattino. Si sveglia tre o quattro volte durante la notte e, pensi, sempre per la stessa ragione.»
«Quale?» fece incuriosito Donegall ruotando lentamente in senso antiorario il suo calice napoleon.
«Per una barzelletta. Si sogna delle storielle davvero divertenti. Non si sa se se le inventi lui o se qualcuno nel sonno gliele racconti, ma sta di fatto che quando al risveglio me le riferisce sono irresistibili.»
«Da non crederci…» commentò Donegall che avvertiva attorno a sé l’intenso bouquet di quel cognac stravecchio.
«E se fra un po’ scende se ne accorgerà, è spassosissimo.»
«Però mi spiace» disse Donegall imbarazzato «magari sono stato proprio io, parlando ad alta voce, a svegliarlo. Le assicuro che pensavo non ci fosse nessuno.»
«Non si dia pena, Donegall, nessun disturbo. E poi mio zio Ruben è morto da vent’anni.»
DI CHE COLORE SONO I MIEI OCCHI?
Il bambino era sereno, sorridente. Pareva che poco capisse di quel trambusto e del fatto che i genitori, agitati, misurassero a turno, in lungo e in largo e a passi distesi, la sala di attesa del medico. Per lui era come un gioco.
«Vostro figlio non ha nulla di patologico» rassicurò l’oculista. «I coni e i bastoncelli della retina sono regolari, ha persino undici/decimi di vista.»
«E allora perché vede in bianco e nero?»
Il medico guardò per terra, come se non trovasse le parole e le cercasse sulla moquette. «Forse è un problema neurologico. Dovremo andare fino in fondo a questa questione.»
Warren aveva sei anni allora, ma risultò perfettamente sano anche ai successivi esami. Era nato così e non si poteva far nulla. La sua vita del resto era normale, piena di amici, di interessi e di piccole e grandi sfide. Divenne adulto, imparando a sopperire al suo deficit cogliendo le minime sfumature del grigio e delle pieghe del bianco.
«Di che colore sono i miei occhi?» chiese la prima volta a Belle che lo aveva appena fatto sognare con un tenero bacio.
«Blu» fece lei senza esitazione. E gli sorrise, amandolo ancora di più, se solo fosse stato possibile amarlo di più. E c’era un tramonto rosso violetto quando si scambiarono la promessa di una vita insieme e un profondo blu cobalto nascosto tra le onde dell’oceano quando lei gli disse che aspettava un figlio. Warren non si era mai chiesto perché gli fosse stato negato il miracolo della luce colorata, perché la sua vita dovesse apparigli come una pellicola d’altri tempi. ‘Forse era semplicemente giusto così’, si era detto, ‘ma la felicità ha forse colore? E l’amore? Che colore ha l’amore?’
Un giorno, di ritorno dal mare, Belle, la figlia Rose e il piccolissimo Warren junior, nato pochi mesi prima, furono spazzati via da un truck folle che saltò la corsia proprio all’altezza del chiosco dei gelati davanti al quale si erano fermati. Belle e Rose furono scaraventati a centinaia di metri di distanza. Il piccolo Warren junior non fu nemmeno più trovato.
Warren si sentì spezzare l’anima. Un colpo secco alla propria esistenza e poi più niente. Rimase una settimana, come morto, immobile sulla poltrona dove aveva ricevuto la terribile telefonata. Poi si alzò e iniziò a piangere contro il muro. Come non aveva mai fatto, come non sapeva neppure di essere capace di fare. Smise all’improvviso. E cominciò a vedere il mondo a colori.
IL PEZZO MANCANTE
L’aspirapolvere cominciò a sballottare rumorosamente e di lì a poco il motore si spense in uno sbuffo nerastro. La giovane donna mollò subito ogni cosa sul pavimento e rimase pensosa sul da farsi; poi si mise a fare dell’altro. Lui ci mise un bel po’ per capire cosa la donna delle pulizie avesse combinato, ma quando, smontando l’apparecchio, trovò conficcato nella bocchetta dell’aerazione un piccolo dado luccicante anche lui si fece pensoso. Se lo girò tra le mani, soppesandolo, come per chiedersi da dove fosse sbucato: in quella camera i mobili erano infatti tutti a incastro. Controllò dentro l’armadio, sotto il letto, nello spogliatoio: no, non c’era niente che richiedesse l’utilizzo di quel pezzetto di metallo. Avrebbe voluto buttarlo via, ma pensò che da qualche parte c’era una vite in libertà che avrebbe potuto cadere da un momento all’altro rendendo inservibile chissà quale oggetto importante; e lui non lo poteva consentire, non nella sua casa. Pensando che il dado potesse essere finito in quella camera da qualche altra stanza, ispezionò tutta la casa, controllando gli infissi, i tavoli, le poltrone, i lavelli, la doccia… ma tutto pareva in ordine. Dormì male. Durante la notte sognò dadi enormi che lo rincorrevano lunga una ripida discesa fino a quando, giunto trafelato su una spiaggia, venne aggredito da un orribile mostro bulloniforme uscito dal mare. Si svegliò di soprassalto e capì che la sua vita perfetta e ordinata, si era inceppata. Andò in ufficio di buon ora chiedendo aiuto ai colleghi che per un po’ lo ascoltarono e poi cominciarono a prenderlo in giro. Ritornò a casa di fretta, saltando il pranzo, desideroso di dare inizio a più approfondite ricerche. Trascorsero però molte altre settimane da quel pomeriggio senza che lui ne venisse a capo. Durante il giorno, e ancor più durante la notte, sembrava che l’intera casa scricchiolasse reclamando il dado mancante. Quelle mura e il suo mondo non erano più sicuri e questo lo faceva star male. Smise di andare in ufficio e tutto il tempo disponibile lo impiegò in instancabili controlli ed estenuanti verifiche. Gli telefonò il suo direttore. Lo redarguì aspramente dicendogli che era costretto a licenziarlo per il suo comportamento inqualificabile; che era il caso si curasse seriamente perché era di certo diventato nevrotico. Lui non ascoltava, pensava al suo bullone. Ma prima di riattaccare il direttore gli disse una cosa che lo fece riflettere: disse che il dado gli era caduto dal cervello. Lui ci pensò a questa cosa. Il direttore era una persona esperta di vita e poteva aver ragione. Sì, non c’era altra spiegazione: il dado era probabilmente caduto a lui. Così andò in cucina e con un coltello affilato si fece un taglio profondo al cuoio capelluto. E, finalmente felice, vi conficcò il dado perduto.
UNA VISITA INTEMPESTIVA
«Cancella tutti gli appuntamenti di oggi» disse la funzionaria premendo un pulsante della plafoniera del telefono «e mi faccia preparare subito la macchina che mi porti all’eliporto. L’elicottero deve essere pronto fra un’ora.»
Preparò la ventiquattr’ore. e, visto che c’era, ci infilò anche il report con gli ultimi sondaggi. L’avrebbe visionato con calma. La davano in preoccupante calo di consensi. Durante il viaggio avrebbe pensato a qualche nuova strategia per recuperare l’ala oltranzista della sua fazione. Quel benedetto Millemi la stava impensierendo. Subentrato dopo la vacanza del posto al fidato Acanti, era arrivato questo giovane rampante che non lesinava occasione per darle pubblicamente addosso. Sì, certo, non era stata una grande mossa annullare i lavori alla variante dell’ex area Poltri, ma le pressioni di certe frange dell’elettorato non potevano essere ignorate.
La sua visita tempestiva sul luogo della tragedia avrebbe avuto quindi un indubbio peso politico e un benefico impatto positivo risollevando la situazione. Millemi non avrebbe più potuto sostenere che la macchina dei soccorsi era scattata in ritardo.
«Presidente, la macchina è arrivata» disse la segretaria aprendo la massiccia porta in noce e sporgendo una faccia smagrita e i troppi capelli biondi che la sormontavano.
«Si grazie Paola, arrivo subito.»
‘Si, forse il tailleur chiaro non è l’ideale’. Pensò. L’avrebbe sporcato tutto. Ma sicuramente le avrebbero dato qualcosa alla protezione civile per cambiarsi o coprirsi. Comunque ne sarebbe valsa la pena.
Scese l’ampia scala sotto i soffitti affrescati. Non aveva voglia di prendere l’ascensore. Il suo passo risuonò nell’androne e al suo passaggio i due carabinieri scattarono sull’attenti come due automi caricati a molla. Scivolò dentro la macchina blu che partì velocemente. Con la sirena spiegata arrivò all’aeroporto in venti minuti. L’elicottero ci mise un po’ di più a partire a causa di problemi di rifornimento. Ma dopo neppure un’ora la funzionaria era già nell’ufficio del Sindaco.
«Voglio esprimerle a nome di tutto il Governo che rappresento il mio più sentito cordoglio per le vittime e i danni ingenti alla popolazione. Occorre una risposta forte e immediata contro gli atti vili e criminali che ci lasciano sgomenti, ma fermi e indomiti. Vogliono colpire il cuore dello Stato, ma noi non lo permetteremo.» La donna aveva proferito quelle parole tutto d’un fiato, appena entrata. Non si era neppure seduta e stava ancora stringendo la mano al Sindaco.
«Mi scusi onorevole» disse il giovane Sindaco impacciato e in visibile imbarazzo per una visita ufficiale tanto importante quanto inaspettata. «Non capisco. A quale attacco vile e criminale fa riferimento?» e aveva l’aria di volersi scusare di non avere un massacro disponibile da offrirle.
«Alla stazione ferroviaria… tutti quei morti, case sventrate, danni ingentissimi, mamme che piangono i loro bambini…» fece lei, di rimando, indispettita di avere di fronte il solito Sindaco inefficiente e di scarsa intelligenza.
In quel mentre un’esplosione dirompente e violentissima squarciò l’aria e fece spalancare le finestre del Comune. Entrò un forte odore di tritolo e di carne bruciata, polvere e urla.
La funzionaria rabbrividì sbiancando in volto. ‘Accidenti, sono arrivata troppo presto’, pensò.
Featured image, Vladimir Propp, autore del mitico “Le radici storiche dei racconti di fate”.
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