Contro la “mala vita”, nel posto giusto al momento giusto

Creato il 20 maggio 2012 da Plabo @PaolaBottero

Genova, giornata della memoria. Come ogni anno, i familiari delle vittime di mafia si preparano unendosi in un abbraccio corale. Si confrontano, parlano. Ogni anno vi sono volti nuovi che si affiancano a quelli ormai conosciuti. Nuovi nomi che si aggiungono nell’elenco infinito della mattanza. Nuove lacerazioni nelle famiglie delle vittime, nella società. In ciascuno di noi.

Dovrebbe esserci l’Italia intera, a toccare e respirare il dolore e la dignità di chi, nonostante tutto, continua a credere che una società diversa sia possibile. Spiegandoci che i loro, i nostri morti ammazzati ci indicano la strada: quella della memoria. E dell’indignazione.

Uno degli interventi al fianco di Luigi Ciotti e Nando Dalla Chiesa parlava crotonese: il padre del piccolo Dodò Gabriele, ragazzino ucciso durante una partita di calcetto “perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Sparatoria in pieno giorno tra “uomini d’onore”, in mezzo alla gente. Un proiettile sbaglia traiettoria, entra nella vita tenera di un ragazzino. È il 25 giugno 2009. Non compirà mai dodici anni, il piccolo Domenico: prima del 17 ottobre arriva il 21 settembre. Dopo tre mesi di agonia all’ospedale di Catanzaro, Dodò si arrende.

Papà Giovanni non vuole arrendersi. Da allora, con mamma Francesca, lotta con Libera affinché non ci siano altri proiettili vaganti. A Genova lancia un macigno sul cuore di ciascuno. Un peso che non riesci più a scrollarti di dosso: «Dove doveva trovarsi un ragazzino se non in un campo di calcetto? Dodò era nel posto giusto al momento giusto».

La sua verità toglie il fiato: è La Verità. È solida come una montagna. Ovvia come una montagna. O come il mare di Acciaroli. Altro mare, quello del Cilento, ugualmente insanguinato.

È il 5 settembre 2010. Angelo Vassallo sta tornando a casa. I proiettili che lo strappano alla sua famiglia, ai suoi cittadini, alla nostra società, non sono vaganti. Nove colpi. Sette vanno a segno. Pollica perde una risorsa ancora più importante del suo mare colmo di bandiere blu. Perde un sindaco che non è riuscito a compiere cinquantasette anni. Un uomo che si trovava nel posto giusto al momento giusto. E che per questo, solo per questo, ha pagato con la vita.

C’è differenza tra Dodò e Angelo? No. Entrambi erano dove dovevano e dove volevano essere. Entrambi si sono scontrati con ciò che non dovrebbe essere: la malavita, quella «che prevale sulla buona vita».

Basta andare ad Acciaroli, o nei borghi che compongono Pollica, per ritrovare Angelo Vassallo. Quello che ha fatto, quello che ha programmato. «Noi non abbiamo industrie su cui contare» ripeteva continuamente. «La nostra industria sono il sole, il mare, la natura, il turismo, e i soldi quindi devono venire da questi. Se il bene pubblico è gestito bene, rende più del bene privato». Una cosa sola, è sfuggita al sindaco illuminato: per una buona parte di Italia, non solo per la malavita, il bene pubblico è privato. Gestirlo significa qualcosa di ben diverso dal farsi interpreti dei bisogni dei cittadini e del territorio. Quella parte di Italia, che ormai è banale chiamare zona grigia, perché si sta colorando sempre più, è responsabile di ciò che non dovrebbe succedere. Quella parte di Italia arma, più o meno inconsapevolmente, le pistole e i fucili dei killer delle mafie. Quella parte di Italia stravolge e rende possibile il pensiero del papà di Dodò, e di tutti i familiari delle vittime di mafia, rendendo ogni “posto giusto” un “posto sbagliato”.

Quella parte di Italia non è, non deve essere la nostra. [il futurista nr 41]


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