L’arcivescovo e teologo Bruno Forte scrive sul Sole24Ore. Forse perché è autore di infelici riflessioni come questa natalizia? Sentite:
«Praticare la giustizia»: è il primo impegno che Michea indica per vivere a testa alta il tempo della crisi e superarne gli effetti, a costo certamente di sacrifici e di scelte esigenti. Pratica la giustizia chi accetta la fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani sul piano della dignità personale e dei diritti fondamentali ed è pronto a riconoscere e dare a ciascuno il suo. Tradotto nei termini di quanto oggi ci viene chiesto, ciò vuol dire che chi ha di più deve dare di più e chi è più debole va maggiormente sostenuto. «Equità» è il termine con cui quest’esigenza è stata espressa più volte e da più parti in queste settimane difficili, sia per proporne il valore di meta, sia per denunciarne l’inadeguata realizzazione.
Se è vero che il Cristianesimo non solo “accetta” ma proclama la fondamentale uguaglianza di tutti gli essere umani sul piano della dignità personale, non è vero che si faccia avvocato di quelli che oggi chiamiamo “diritti fondamentali”, e meno che mai esorta “a riconoscere e dare a ciascuno il suo”. Ai primi, sempre che si parli davvero di diritti fondamentali e non di capricci, non si oppone, perché sono in buona parte frutti suoi, ma lascia che sia il tempo a farli maturare. S. Paolo predica a padroni e schiavi, indistintamente, ma invita questi ultimi a “restare nella loro condizione”, così come invita tutti i cristiani “ad ubbidire ai magistrati”: il cristianesimo non predica né la ribellione né la fuga dalla «polis». “Riconoscere e dare a ciascuno il suo” è inoltre proprio di Dio: in terra col disegno provvidenziale, che va incontro ai bisogni particolari di ogni individuo, a fini però di salvezza eterna; e nella Gerusalemme Celeste, là dove veramente ciascuno avrà “il suo”. Nell’uomo, prigioniero della sua dimensione terrena, questa pretesa onniscienza del «giusto da distribuire» si tradurrebbe in un’ossessione occhiuta buona solo ad ibernare qualsiasi consorzio civile, salvo gettarlo nella guerra civile.
Il messaggio cristiano non può liberare il corpo dell’uomo dalla schiavitù delle cose materiali, ma ne emancipa l’animo. Il “disprezzo delle ricchezze” non è una maledizione contro i beni materiali, dal cibo alle case, ai soldi, agli onori, alle cariche: queste ultime sono cose necessarie e buone. E’ il dovere morale, è la gioia di esser loro superiore: è la «povertà nello spirito». Da questo punto di vista il Vangelo è un’opera di universale, piratesca dissacrazione e liberazione. Se è vero che i ricchi attaccati alla loro ricchezza vengono condannati, è vero che vengono condannate anche le più riposte manifestazioni di questa schiavitù morale, quelle che spesso sfuggono al senso comune: dal fratello del figliol prodigo che s’indigna per la festa che il padre riserva al figlio «ritrovato», ai discepoli che s’indignano per lo «spreco» dell’olio prezioso versato da una donna sul capo di Gesù, “olio che si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri”, ai lavoratori a giornata che s’indignano col padrone del campo che in suprema libertà ha pattuito la medesima paga con chi ha faticato dalla mattina alla sera e con chi ha lavorato solo di sera.
Ed è proprio questa salute morale, quest’animo alleggerito dalla pastoie dell’invidia e della concupiscenza delle cose, il lievito che alla lunga, insensibilmente, fa crescere la società verso un maggiore rispetto del prossimo, verso una meglio fondata solidarietà, verso una prosperità diffusa, verso l’unica «giustizia sociale» possibile, che è quella che si preoccupa di salvare, senza fargliene una colpa, chi «cade». Nel Vangelo di S. Giovanni Gesù «dona la sua pace», ossia dona la tranquillità del suo animo all’animo dell’uomo, ma avverte che anche «il mondo dà la sua pace», una falsa tranquillità, una falsa sicurezza, fondata sulle cose, nemica del prossimo, lievito maligno. E questo può valere anche per la «giustizia sociale»: anche il mondo ti dà la sua «giustizia sociale», istericamente legata alle cose, lievito maligno. Non sospetta, arcivescovo, che questa «equità» sia più figlia dello spirito del mondo che dello spirito di Cristo?
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