Conversazioni dalla fisioterapista: ferma! Sono a novanta!

Creato il 07 luglio 2011 da Unarosaverde

No, nessuna strana pratica sessuale in localini equivoci: si tratta solo di un normalissimo ambulatorio ASL che frequento da tre settimane da quando, cioè, l’ortopedico mi ha dichiarato pronta a rientrare nel mondo dei bipedi.

L’evoluzione dal quadrupede – 2 stampelle + 2 gambe – al bipede deve passare attraverso questa stanza pulita e d’antan (si vede che mancano i soldi, nel pubblico) nella quale sono schierati sei lettini, in compagnia di parallele, cyclette, strumenti di legno con strani ghirigori e scale graduate, pedane e sacchettini pieni di sabbia. L’ambiente è confortevole, in leggera penombra per difendersi dal sole: al soffitto girano le pale dei ventilatori, l’aria condizionata è un miraggio ma a me va benone così, le fisioterapiste sono brave, efficienti e tranquille. Penso che siano talmente abituate a vederne di tutti i colori passare sotto le loro dita e a rimettere in piedi gente sfasciata che non si agitino più per nulla.

“La mia soglia del dolore è bassissima”, ho avvertito il primo giorno. “Scusate se ululo e se dico parolacce: abitualmente sono una personcina ammodo”. Parolacce non ne sono ancora uscite però lamenti indegni sì e una volta è salita l’altra gamba di riflesso, che se non centro la fisioterapista sul naso è solo per miracolo. La terza volta che hanno provato a forzare il piegamento, scontrandosi con tutta la mia forza opponente concentrata nella rotula, mi hanno detto: ” Girati a pancia in giù”.  Io lo sapevo, che avevo esagerato. “Se ti dicono di girarti a pancia in giù è finita” mi aveva avvertito un collega super esperto in materia ginocchio. “Significa che non collabori: da sotto fai meno resistenza”.

Da sotto resistenza proprio non ne faccio, però ho inventato una nuova posizione yoga che consiste nel sollevare il bacino il più possibile per rendere difficile alla povera crista che si occupa di me di avvicinare la caviglia al culo. Due in uno: riabilitazione del ginocchio ed esercizi Kegel per il rafforzamento pelvico. Tra le due suddette parti, culo e caviglia, che non si incontreranno mai perché c’è troppa ciccia in mezzo, al momento c’è ancora la stessa distanza che si misura tra i due lati del grand canyon. Sono una paziente pessima: in ufficio non posso fare movimento, la sera sono stanca e faccio tre nanosecondi di esercizi. Il mio preferito, nel quale ho raggiunto la durata record di quaranta minuti, consiste nel convincere il ginocchio a scendere fino a toccare il lettino, attraverso l’uso di pesi: fa male ma non prevede la mia partecipazione attiva. Così mi guardo intorno e chiacchiero.

Di che si parla in un posto così? All’inizio si discute del tempo, poi si comincia con il “cosa ti è successo?”, questa volta richiesto e non inflitto, come in questo caso, per spirito di comune sofferenza tra gli esercizi di rieducazione.

Sul lettino accanto al mio due volte su tre incontro D., rumeno, da anni in Italia, che scopro lavora a 50 metri da casa mia. Piccolo mondo di provincia. Stesso luogo di intervento, tempi più brevi: lui piega ed estende benone dopo due settimane dall’artroscopia. Io faccio, dopo sei, metà di quello che fa lui. “Io però il menisco ce l’ho ancora e tu no”, dico bastarda. “Io però piego a 120 e tu te lo sogni”: non lo dice perchè  è educato ma mi fa vedere il movimento e sorride tranquillo. Poi a casa si impegna pure. “Non vale, secchione” sentenzio. Lui ride e risponde che la moglie è stufa di lui e lui è stufo di stare a casa e vuole riarrampicarsi sui tetti e ricominciare il suo lavoro. Io gli rispondo che devo andare in ferie per godermele, motivazione molto più seria. Si parla di difficoltà di integrazione, di crisi economica: gli è andata bene. Ha un datore di lavoro onesto e tutto ciò che di regolare ci deve essere in busta paga e nei dei DPI.

Poi ci sono quelli che non sono lì per un periodo limitato al recupero ma sono ospiti fissi, soprattutto donne, che tornano periodicamente, sono di casa e convivono con un handicap più o meno grave. Alla prima seduta ho fatto la timida, alla terza parlavo di coppette mestruali tra un gemito e l’altro. C’era tra il pubblico un vecchio amico, in fase recupero pure lui, che a metà dell’orazione è scappato perchè “scusate se vado, ma questi sono discorsi troppo da donne”!

E così, tra un’estensione ed un piegamento, domani finiscono le prime dieci puntate e poi c’è il tagliando. Elemosinerò all’ortopedico il nulla osta per ricominciare a guidare. “Tu non mi faresti guidare?” chiedo alla fisioterapista. “Non vedo perchè non dovresti, dato che facciamo due strade diverse e non c’è pericolo che ci incrociamo”, ha risposto. Oggi abbiamo fatto un controllo: dai settanta gradi iniziali sono a novanta attivi e novantacinque con un aiutino. L’aiutino, peraltro non richiesto, è arrivato in un momento in cui ero distratta e il grido lo hanno sentito fino nel piazzale. Poi però stavo benissimo. Comunque, guida o non guida, ho vinto un altro giro di dieci ingressi. “Nella vita bisogna sapersi accontentare”, ho provato a dire alla fisioterapista. “Io mi ritengo soddisfatta così”. “Fatti fare subito l’impegnativa”, mi ha risposto, “così non interrompiamo questa piacevole abitudine.”


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