Ambulatorio di ortopedia, ieri, a togliere il paio di punti di sutura e a patteggiare la liberazione dal tutore un giorno prima della scadenza della pena. Sono piccole gioie. Faccio anticamera tra stampelle, dita e piedi fasciati, gessi colorati. Siamo un campione di tutte le età. Li vedi subito in faccia quelli che non resistono: ti piantano gli occhi addosso e cercano la tua attenzione. Sono quelli che vivono le leggi sulla privacy come un’offesa alla libertà di espressione. Non appena commetti l’errore di guardarli attaccano:
“Cosa ti sei fatta?”
“Menisco rotto e suturato” – rispondo laconica. Non sono maleducata. E’ che in queste due settimane di immobilità forzata ho ripreso la pratica del pisolino pomeridiano e mi è toccato saltarlo. MI sento come all’asilo, quando mi svegliavano alle tre ma sarei andata avanti tranquilla fino all’ora di merenda. Mi appoggio alle stampelle e cerco di imitare i gatti, che dormono anche con gli occhi aperti. Il tizio, visto che non gli ho dato soddisfazione e non gli ho chiesto “E tu?” decide comunque di dirmelo lo stesso.
“Io invece sono stato centrato da un camion”. Il mio livello di attenzione rimane blando ma gli occhi delle signore in sala si concentrano subito su di lui. E’ un trentenne, in tuta, solido, capelli corti. Ha un leggero accento straniero ma parla con sicurezza. E ci tiene tanto a raccontare.
“Oh, poverino” dicono le donne in sala. “Eri in macchina?”
“No, in moto.” risponde lui. “Spero che adesso non la userai più” replica subito acida una signora di quelle che sono sicure che ogni motociclista morirà schiantato e non ha ancora capito che certe cose, anche se non te le vai a cercare, ti possono capitare pure mentre cammini sul marciapiede.
“No” risponde il ragazzo poco convinto “Non la userò più in strada. Solo in pista, adesso”. Lo accompagna il padre, un uomo alto, vestito sportivo, i capelli sale e pepe e la smania di proseguire la conversazione. Infatti comincia a raccontare l’incidente con dovizia di particolari raccapriccianti. Registro solo che l’impatto è stato frontale e che, in qualche modo, il ragazzo si è ritrovato schiacciato sulla pedana.
“Ho rotto tutto, anche la milza. Vuoi vedere?” Si alza e tira su la maglietta mettendo in mostra cicatrici e cavità. Fa quattro passi tra le sedie, sporgendo l’addome. Il ragazzi in sala guardano ammirati: ce ne sono un paio, entrambi con una semplice mano fasciata, che impallidisce al confronto di tanto scempio.
“E tu?” chiede ad un signore accanto a me che ha l’aria scazzatissima e pensa ai fatti suoi. “Una brutta frattura” risponde la moglie per lui. “Fa male il piede rotto.” prosegue il ragazzo riprendendo le redini della conversazione “Anche io avevo il gesso”. Prima che riesca a togliersi la calza e a mostrare le prove, interviene il padre.
“Io e un mio amico abbiamo fatto un incidente ancora peggiore: siamo finiti con la moto sul tetto di una casa. Abbiamo volato”. Non finisce la frase che già si sfilato la scarpa per indicare i segni della rottura della caviglia. Grazie al cielo non si leva la maglietta ma, ci assicura, sulla spalla si vede ancora da dove era uscito l’osso. Gli “Oh, poverino” del coro delle donne riprendono.
Non è che mi sento come all’asilo. E’ che ci devo essere proprio tornata. Le bambine con i grembiulini rosa che rimiravano, tra finta ripulsa e materna commiserazione, le cicatrici sulle ginocchia dei maschietti, lasciate libere dai grembiulini azzurri. E’ una gara a chi si è fatto la bua più grossa, mi sa.
Ma io sono fuori competizione. Che volete che racconti? “Mi sono piegata per passare sotto la sbarra abbassata del parcheggio e ho sentito crack?” Non è mica epico. E’ solo da sfigati. E così resto, con gli occhi semichiusi, a rimirare le cicatrici di caccia degli altri bambini.