Anche lo sport non è immune dall’antico vizio. In queste settimane riprende la Coppa Italia, una competizione il cui regolamento sembra fotografare le divisioni tra caste. Spieghiamoci meglio: ovunque nel mondo la coppa nazionale è sinonimo di uguaglianza, della possibilità per qualsiasi club di vincere la competizione sfidando alla pari i ‘fratelli maggiori’ delle serie superiori. Non mancano gli esempi: solo quattro anni fa nella gloriosa FA Cup inglese tre delle quattro semifinaliste militavano nella Serie B locale; nella scorsa edizione della finale di Coupe de France sono usciti sconfitti con grande onore i dilettanti del Quevilly. Questo è il bello di una competizione che per antonomasia offre a chiunque la possibilità di partire alla pari e arrivare fino in fondo. Per dirla tutta: ovunque i sorteggi degli accoppiamenti sono effettuati senza ‘teste di serie’ o vantaggi particolari, se non come in Svizzera e Germania le formazioni più deboli godono del fattore campo a favore nella fase iniziale. Le squadre dei massimi campionati entrano in gioco già dai primi turni senza benefici o privilegi negli accoppiamenti. Ovvero, ai 32esimi di finale è possibile – è già accaduto – che il Chelsea trovi il Manchester United sul suo cammino, oppure di vedere Balotelli e i compagni del City doversi andare a conquistare la qualificazione a casa di un club dilettantistico.
In Italia no, ci mancherebbe. Proprio come è improbabile accedere ad alcune professioni per il popolino, per i piccoli club nostrani la finale della Coppa Italia è un miraggio. Con un regolamento unico nel suo genere, le grandi squadre beneficiano di un lasciapassare che le porta direttamente agli ottavi di finale, senza neppur permettere la soddisfazione alle piccole di averle sfidate. In più, con il privilegio pure di giocare sempre in casa nei turni successivi. Si dice spesso che il calcio sia uno specchio del Paese. La Coppa Italia di certo ne è tra le versioni più sublimi.
Paolo Sacchi