di Giovanni Agnoloni
Corrado Govoni, Crepuscolarismo e Oltre
Forse è per la natura composita della sua formazione e ispirazione, o per il carattere pluridimensionale e deliberatamente dispersivo delle poesie che formano questo densissimo libro elettronico – come ben sottolineato dal curatore Francesco Targhetta nella sua prefazione –, che desidero aprire, con questa recensione, una serie di riflessioni che considero come una sorta di “cantiere aperto” verso la realizzazione del mio saggio sul Connettivismo nel quadro delle ampie dinamiche della letteratura del Novecento, còlta nelle sue due “stagioni” del Modernismo e del Postmodernismo, che uscirà nel 2015 su Italica Wratislawiensia, rivista di italianistica dell’Università di Wrocław.
Non è un segreto, infatti, che il movimento connettivista attinga in larga parte tanto alla tradizione crepuscolare, quanto a quella futurista, che sono espressioni di quell’orizzonte di crisi (che nel primo caso trova una risposta intimistico-contemplativa, nel secondo dinamico-altisonante) che si estenderà per tutto l’arco dell’esperienza modernista (approssimativamente, nella prima metà del Novecento) e che la letteratura postmoderna (nella seconda metà del XX secolo, e soprattutto nei suoi ultimi venticinque-trent’anni) vedrà radicalizzarsi. Verrà così manifestandosi un sempre più profondo distacco/sconnessione dell’Io dalla sua radice intima (il Sé, fulcro dell’identità), unitamente a una progressiva parcellizzazione della coscienza in una sorta di multiverso plurisfaccettato.
Corrado Govoni (da Wikipedia)
Rispetto a tutte queste dinamiche – al cui cuore peraltro c’è pure l’imprescindibile contributo della letteratura di fantascienza, e soprattutto della sua stagione Cyberpunk – il Connettivismo si pone come fenomeno aggregante, come ben spiegato da Arielle Saiber nel suo recente articolo “Guardians of Fallen Angels, Wolves of the Stars: Italian Science Fiction’s Connettivismo Collective” (presentazione per il Convegno della Society for Literature, Science, and the Arts all’University of Notre Dame, October 2013), teso a ricostituire una visione “unitaria”, o meglio olistica, dell’esistenza, che, senza negare lo smembramento cui si è assistito lungo tutto l’arco del Novecento, sappia scendere nel Profondo dell’identità umana, e al tempo stesso addentrarsi nella misteriosa risonanza tra l’uomo e il Cosmo, e più specificamente tra l’uomo e la Natura.
Se questo è il punto d’arrivo, dunque, molteplici sono le premesse. E la poetica govoniana, crepuscolare, sì, ma intrisa anche di molto altro, costituisce uno dei punti di partenza più cruciali.
La rete di rimandi interni e di suggestioni trasversali delle liriche di Govoni – il cui “sguardo sul mondo” è ben definito da Francesco Targhetta come “scaleno” – rappresenta infatti un reticolo tentacolare e labirintico di immagini e concetti che conducono il lettore attraverso un’esperienza spiraleggiante e ricca di spigoli, dove agli spunti più spiccatamente crepuscolari si affiancano momenti meditativi proiettati su un orizzonte pienamente moderno, se non (in nuce) postmoderno. Accanto a
Il crepuscolo è d’un lillà soave
I passerotti si rifugian nel pagliaio
Le galline tardive corrono al pollaio
Sbatte una porta. Gira stridendo una chiave
di Nella casa paterna, troviamo infatti
Le ombre giocano ai dadi sopra il pavimento
ed un pattuisce coi sicari nel giardino
la vendita del giorno per poche monete
di Studio di nudo, che sembra anticipare scenari alla Philip Dick o alla Roberto Bolaño.
Accanto al senso di lacerazione interiore (e quasi – richiamo petrarchesco? – a una segreta voluptas che lo accompagna) dei versi iniziali di Udendo suonare dei ciechi,
Noi siamo i malinconici rimpianti,
le vite tronche, le speranze decadute
gli ideali in esiglio, i sogni vani,
le carezze impossibili, gli amori infranti,
le illusioni che con dei passi incerti di sperdute
emigran tristemente verso lidi pallidi e lontani,
e verso ciò che non fu mai e che mai non sarà!
vediamo l’intuizione di un sottile pertugio cosmico-interiore, ne Il labirinto:
Pensate che in un grande labirinto
un fantasima celere come una ruota
sotto le stelle corra corra spinto
dal suo destino verso qualche porta ignota;
così nel labirinto della vita
l’uomo si affanna a correre di qua e di là,
finché trova la sola via d’uscita
da cui s’entra per sempre nell’eternità.
Si offre dunque il destro a un’analisi retrospettiva del Connettivismo, risalendo verso queste sue lontane matrici. Penso alla propensione di certi spunti poetici di Sandro Battisti – co-fondatore del movimento insieme a Giovanni De Matteo e Marco Milani –, pubblicati regolarmente sul suo blog Hyperhouse, quale il recente Nuovi archetipi:
Descrivo soltanto ciò che appare palese ai miei occhi interiori, lasciando che le pagliuzze che svolazzano agli angoli di attenzione sferraglino i loro disturbi memetici per fecondare nuove risoluzioni, nuove estese capacitive memorie cui potrai attingere.
T.S. Eliot (da Wikipedia)
Non mi soffermerò adesso su questi aspetti, sia perché la riflessione di oggi è comunque imperniata su Fuochi d’artifizio, sia perché, come accennavo all’inizio, questi miei appunti, sia pur “pubblici”, sono solo osservazioni propedeutiche a quanto svilupperò nel mio preannunciato saggio.
Mi interessa invece concludere questa recensione con una considerazione che, sia pur partendo dal titolo della raccolta – volutamente evocativo del suo carattere composito e pluridirezionale – mira a coglierne il tratto, oserei dire, sapienziale e perciò stesso ancestrale, sintonizzato sulle risonanze segrete di quella Natura che è espressione e ospite dell’infinito senso del cosmo. Così, con un senso di spiazzamento paragonabile ad un altro, ancor più perturbante Poeta della Natura, Thomas Stearns Eliot, vediamo come, ne Il vascello fantasma, si assista all’inquietante sensazione di smarrimento dell’uomo di fronte a una Natura quasi (pensando al poeta latino Lucrezio e, mutatis mutandis, a Giacomo Leopardi) indifferente ai suoi drammi:
Nella notte con un tremendo cigolio il carcame
del vascello fantasma tra dei nuvoli olivastri
di gabbiani seguaci passa sul ruggito infame
del mare verde dall’immensa foia di disastri.
Insieme, questi versi, in una sequenza quasi onomatopeica – secondo quella che mi pare di poter riconoscere come una venatura futurista – evocano scenari accostabili a certa lirica greca (penso, su tutti, ad Alceo: “Non capisco / il tumulto dei venti: / infatti, un’onda si avvolge di qua / ed una di là, e / noi nel mezzo siamo trascinati / con la nera nave, assai travagliati / per la grande tempesta…”), ma anche alla grande poesia romantica inglese (La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge: “E si levò in quel punto la tempesta / furiosa, prepotente; / percossi dalle sue ali ci spinse / lungamente nel sud. / Con le antenne inclinate e con la prora, / come chi se inseguito con grandi urla / calpesti ancora l’ombra del nemico, / china avanti la testa, / la nave si rubava alla tempesta / e fuggivamo sempre verso sud…”) e, appunto a T.S. Eliot, che, ne La terra desolata, con la peregrinazione di Phlebas il Fenicio (peraltro rievocato da Alex Tonelli nel suo racconto Pensa a Phleba, nell’antologia connettivista A.F.O. – Avanguardie Futuro Oscuro, ed. Kipple Officina Libraria), affonda nella lacerazione intima dell’uomo moderno (“Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni / Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, / E il profitto e la perdita. / Una corrente sottomarina / Gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava / Passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza / Procedendo nel vortice”).
Tutta questa ricchezza di consonanze letterarie dimostra il valore fondante, nell’orbita del Novecento, della poesia di Govoni: non certo perché abbia essa stessa dato origine a tutto ciò che l’ha seguita, ma perché, in qualche modo, ha inaugurato una stagione e, proprio per il suo carattere plurisfaccettato, si è ben prestata e si presta tuttora come termine di riferimento per una serie di utilissimi percorsi interpretativi nel pensiero e nell’intimo dell’uomo di (appena) ieri.
Segue una mia intervista al curatore di Fuochi d’artifizio, Francesco Targhetta, nella quale questi spunti vengono ulteriormente approfonditi.
1. Il critico Raoul Bruni mi ha recentemente fatto notare come Corrado Govoni compaia in apertura delle più autorevoli antologie della poesia italiana novecentesca. Perché questa posizione e questo ruolo di “apripista”, nella letteratura del secolo scorso?
- Come poeta Govoni esordì diciottenne nel 1903, in un momento che rappresentò uno snodo cruciale per la poesia italiana (è anche l’anno di Alcyone e dei Canti di Castelvecchio): la sua voracità letteraria e la sua capacità di assorbire e metabolizzare immediatamente gli stimoli che provenivano dalla più recente poesia francese gli permisero, assieme alla sua incoscienza da giovane di provincia, di essere in anticipo sui suoi coetanei. Dal laboratorio dei suoi versi è dunque più agevole analizzare la profonda rottura che si andava formando nella poesia italiana, soprattutto, in ambito formale, a livello di abbassamento del registro e di liberazione metrica. I temi della poesia di Govoni, in buona parte, erano già entrati nella lirica italiana simbolista degli anni ’90, ma in un impianto stilistico ancora saldato alla tradizione: solo con lo strappo di Govoni (e degli altri ‘crepuscolari’) si inaugura il Novecento.
Francesco Targhetta (da paroleaconfine.it)
2. Particolarmente affascinante è la natura composita e oscillante della sua ispirazione poetica, sospesa tra suggestioni crepuscolari, futuriste e simboliste. I primi due decenni del XX secolo, in particolare, sono un periodo di grande fermento, un melting pot di movimenti e tendenze, anche al di fuori dell’ambito letterario, e in qualche modo preparano a tutto quanto seguirà. In che misura ritieni che la poetica di Govoni sia “specchio di un’epoca”, a livello italiano come anche a livello europeo?
- Come scrive Mengaldo, il periodo 1903-1919 fu, per la poesia italiana ed europea, quello delle avanguardie, e Govoni, con la sua curiosità famelica, non si lasciò sfuggire l’occasione di provare tutte le nuove maniere disponibili: già il doppio esordio del 1903, così come una raccolta bifronte come Gli Aborti (1907), dimostra un euforico desiderio di mettersi alla prova e sperimentare. Languori decadenti ed estroversioni futuriste possono convivere (in lui come in Palazzeschi e in molti altri autori minori di quegli anni), perché sono in realtà due facce della stessa medaglia, proponendo due reazioni complementari – la reclusione intimistica e l’aggressione esplosiva – allo stesso senso, nuovo per lo scrittore italiano di quegli anni, di “perdita dell’aureola”. E questa convivenza la si vede in Govoni meglio che in altri poeti, proprio per la sua immediatezza e la sua mancanza di rielaborazioni intellettuali, il che non significa, naturalmente, che la sua scrittura non fosse originale. Anzi. Govoni, in tutti i suoi attraversamenti lungo le diverse tendenze del ‘900, mantenne un’impronta personale che rende i suoi versi (dal 1903 agli anni ’60) perfettamente riconoscibili.
3. Infine, una domanda relativa agli scopi che mi prefiggo con questi appunti preparatori al mio saggio sul Connettivismo. Quale ritieni essere il più evidente elemento di “scarto” (o, al contrario, l’elemento di continuità, se del caso) tra la stagione del Modernismo e quella del Postmodernismo?
- La mia impressione è che durante la stagione modernista si vivessero i codici e le tradizioni del passato in modo meno intellettualistico, senza i giochi di rifrazione citazionista postmoderni. D’altronde, banalmente, c’era anche un corpus meno ingombrante con cui confrontarsi, oltre che un bagaglio ideologico meno invasivo.
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