Ieri, sono morto.
Mi sono lasciato cadere.
Ho sentito che il mio corpo andava giù verso il buio.
Poi, non ho sentito più nulla. Né la terra, né le braccia dei miei soccorritori, né il caldo.
Un tuffo nel vuoto.
Pensavo di avercela fatta.
Ma sono morto solo per un po'.
Sennò non potrei essere qui a scrivere, s'intende.
Mi sono svegliato per l'acqua.
Ero in una baracca torrida e lercia. In piedi, di fronte a me, il capo rideva e continuava a buttarmi acqua sul volto. Mi sono ripreso così.
Dalla sua bocca sdentata e grinzosa, penzolava una sigaretta.
Grasso, pelato, sporco, maleodorante, colla canottiera e gli aloni giallastri sotto le ascelle. Rideva ed urlava.
-Negro, alzati!
La sua voce m'è penetrata nelle ossa e nell'anima. Volevo ammazzarlo.
Ho scaricato la mia rabbia stringendo il pugno più che potevo.
Ho chiuso nuovamente gli occhi nella speranza di non riaprirli mai più.
-Alzati, negro!
Ho aperto gli occhi. Oltre la porta della baracca, ho visto che il caldo sfocava tutto.
Nel sud dell'Italia, in estate, il caldo è insopportabile.
Fa comodo pensare che noi, noi che veniamo dall'Africa, possiamo sopportare tutto.
Siamo abituati al caldo, sì, ma siamo uomini.
Bisbigliando, ho maledetto quel bastardo nella mia lingua. Non capiva, ma rideva colla bocca spalancata. Ho visto le sue tonsille.
Poi, ha sputato la sigaretta sul pavimento e l'ha spenta girandoci sopra la punta del piede destro per un paio di volte.
È uscito lasciando la porta aperta. Ho sentito che parlottava con altra gente.
L'italiano non lo parlo ma lo capisco. Ha detto agli altri che ero solo svenuto, dovevo riposare e l'indomani avrei potuto riprendere il lavoro.
Ecco perché volevo morire, per la mia situazione, per il lavoro.
È salito in macchina ed è partito insieme agli altri. Io sono rimasto solo nella baracca piena di attrezzi, disteso su alcuni pancali di legno.
Immobile, ho atteso senza sapere cosa attendere veramente.
Mi chiamo Mohammed. Ho 33 anni. Ho studiato musica.
Ho vissuto nella campagna napoletana per due anni.
Ho lasciato il mio paese per cercare fortuna, pace, una vita felice.
Ho pagato tanti soldi per arrivare qui in Italia.
Mi avevano promesso un lavoro dignitoso, la possibilità di avere documenti regolari, una casa per i primi tempi. Insomma, un futuro.
Sono un clandestino, questo rende me e i miei compagni tremendamente ricattabili.
Saranno state le cinque del pomeriggio. Solo, nella baracca sperduta, non sapevo dove fossi. Mi sono addormentato. Ho sognato che avevo un figlio e aveva i miei stessi denti grandi e bianchi, anche i miei crespi capelli. Avevamo un cane. Il piccolo aveva deciso di chiamarlo Italo.
Eravamo felici. Correvamo spensierati tra le margherite che coloravano un verde prato, qualche albero qua e là, alla nostra destra scorreva un fiume silenzioso e potente, in cielo nessuna nuvola.
Mi figlio correva e mi diceva- corri papà, vieni, prendimi!
Mi alzai colla schiena dolorante, la pancia vuota.
Avevo fatto un bel sogno. Era notte, si erano dimenticati di me.
Correre spensierato col proprio figlio, per noi, è un'utopia.
Abitiamo in una baraccopoli, è un vecchio complesso industriale abbandonato e ci stiamo in più di mille.
Non abbiamo né bagni né elettricità.
Le condizioni igieniche sono disumane, non abbiamo medicine, i topi vivono con noi.
Buttiamo l'immondizia da una parte e poi la bruciamo quando è tanta, allora i topi escono dalla montagna e s'infilano nei nostri giacigli logori.
Siamo ammassati come bestie. Mangiamo poco e quel poco siamo costretti a comprarlo da chi ci tiene rinchiusi. In inverno, specialmente di notte, fa un freddo da morire.
Ci pagano 10€ al giorno per lavorare dalle 4.30 del mattino alle 17 del pomeriggio, nei campi.
Dal nostro villaggio non possiamo uscire. Se ci vedono per strada, o ci riportano dentro o ci fanno fuori. Molti, sono stati il pasto dei loro famelici cani. Fuori ci sono solo campi, e campi ancora. Di Dio, qua, non c'è traccia.
Se ti vede la polizia, vieni rimpatriato. Almeno così dicono.
Noi non siamo uomini liberi, siamo schiavi.
Non c'è scampo. Appena arriviamo ci smistano.
Le donne, o al tessile, o a fare le puttane.
Anche gli uomini sono divisi in due gruppi: muratori e contadini.
Se fai fortuna e si fidano di te, finisci a spacciare da qualche parte d'Italia, magari al nord.
Si sono dimenticati di me in una baracca sperduta nella notte, ho pensato che morire e provare a scappare stavano sullo stesso piano, che forse, scappando, avrei potuto avere una minima possibilità di vita nuova.
I miei amici, mi avranno dato sicuramente per morto. Ma sono morto solo per un po'. Anche se loro non lo sanno.
Allora, rinvigorito dal sogno di avere un figlio, un cane dal nome Italo ed una vita spensierata, ho iniziato a correre verso nord, lungo i campi, seguendo la stella polare.
Lasciandomi alle spalle la terra del dolore e della schiavitù, correvo come se mio figlio fosse davanti a me e dovessi inseguirlo per gioco e poi potessi abbraccialo forte.
Il sole sembrò emergere dalla terra quella mattina. L'alba mi sorprese a correre guardingo verso il mio futuro.
Arrivai ad una strada, mi accasciai sul ciglio per non essere visto. Attesi lì che il sole tramontasse e che fosse ancora notte. Alcune piante mi protessero dalla calura del giorno. Non passò una macchina.
La luna illuminava un paesaggio suggestivo e, le stelle, mi sembrava di poterle toccare.
Davanti a me, sospesa in cielo, la mia guida.
Ripresi la mia corsa anche se più lentamente. La debolezza si faceva sentire.
Mi bruciavano i piedi. Ma noi, noi negri, siamo maledettamente tenaci e resistenti.
Senza accorgermene, mi trovai davanti ad una casa. Una lampada sorretta da un braccio in ferro emetteva una fioca luce che illuminava debolmente un piazzale sassoso. Dei grilli cantavano scandendo un ritmo regolare.
Solo una delle sei finestre era illuminata.
Mi appiattii a terra. Mi avvicinai strusciando. Nel parcheggio, solo una vecchia jeep.
Andai sul retro della casa nella speranza di trovare qualcosa da mangiare o da bere.
Poi un cane iniziò ad abbaiare all'improvviso.
Avevo il cuore in gola. Restai immobile. Vidi che era legato.
Non smetteva di abbaiare. Un'altra luce si accese. Mi gettai verso la veranda. Avevo visto, sul tavolo coperto da un incerato azzurro, una busta.
La presi al volo e corsi dietro la jeep. Restai immobile.
Dalla finestra, la testa di un uomo uscì sospettosa.
Si guardò attorno. Poi chiuse la finestra. La luce si spense.
Attesi ancora un po'. Forse un'ora. Avevo la busta tra le braccia. Mi alzai e presi a camminare tutto aggobbito. Passi timorosi e felpati come quelli di un gatto.
Camminai finché la paura e il tremore alle gambe non passarono.
Urinai. Pare che urinando, scenda la tensione.
Mi nascosi in un canale per lo scolo dell'acqua.
Aprii il sacchetto, dentro ci trovai i resti della cena.
Delle bucce di frutta, pezzetti di pomodori che forse ero stato proprio io a raccogliere, bottiglie vuote e poi tanta plastica.
Ci trovai anche una busta di latte, ce n'era dentro forse solo un dito. Mi sembrò il più buono della mia vita.
Ripresi a camminare.
Raggiunsi un paese ma ci girai alla larga. Poi arrivai ad una strada larga e ben asfaltata.
Macchine sfrecciavano ad alta velocità.
Seguii quell'enorme strada fino ad una stazione di servizio. Alcuni camion erano parcheggiati.
Trovai una fontanella e finalmente mi dissetai. Avevo la pancia piena d'acqua.
Mi lavai anche un po'.
Era notte, ma fece presto giorno.
Alcuni tizi scesero dai loro mezzi, il bar della stazione di servizio accese le sue luci.
Non sapevo cosa fare.
Ai lati della strada, c'erano delle carte. Cercai qualcosa da mangiare ma non trovai nulla.
Un uomo tarchiato e tutto tatuato aprì il retro del suo camion bianco, entrò dentro ed uscì quasi subito. Lasciò la porta socchiusa mentre andò alla fontanella a lavarsi il viso. Sputò sull'aiuola uno sputo catarroso che poi fu assorbito dalla terra in pochi minuti.
Allora, mi venne in mente di saltare su quel camion, di lasciarmi inghiottire dalla strada come quello sputacchio s'era fatto inghiottire dal terreno.
È tutto pieno di scatoloni e c'è puzzo di chiuso.
Io sono qui, scrivo queste parole racchiuso in questa gabbia buia che spero possa guidarmi alla libertà.
Sento l'asfalto sotto di me. Ho ancora nel naso l'odore del tormento.
Scrivo su di un cartone che contiene non so cosa. Il pennarello l'ho trovato per terra. Così, al buio, ci sta pure che non funzioni e che io non stia lasciando traccia delle mie parole.
Proprio ieri sono morto, ieri che ero ancora uno schiavo.
Ieri, era qualche giorno fa.
Ora proverò a dormire un po'.
Non ho più voglia di morire.
Questa mia maglia di una squadra di calcio italiana, è polverosa e puzzolente.
Mi tocco la pelle. Forse, la nostra colpa, sta nel suo colore.
Avrò una moglie, faremo un figlio ed avremo un cane.
O forse non arriverò da nessuna parte, forse resteranno soltanto queste parole.
Sappiate che dove sono stato io, ogni giorno, c'è gente che spera di morire.
È un posto abbandonato da Dio, un posto pieno di persone sfruttate.
Ora proverò a dormire un po', penserò a tanti eleganti violinisti che suonano dove mare a cielo sembrano incontrarsi, dove l'armonia tocca il centro dell'universo.
Mi sento felice.
Sto correndo da mio figlio.