Corrispondenze

Creato il 15 gennaio 2014 da Malvino
Riproduco qui sotto una email inviatami da Nane Cantatore.

Credo che la posizione antispecista non stia in piedi per una patente contraddizione logica, tanto grossa da renderla insostenibile: essa infatti sostiene una continuità tra l’uomo e l’animale, a partire dalla comune capacità di sentire e di soffrire. Lasciamo perdere l’evidente arbitrio per cui proprio tale capacità dovrebbe essere fondativa di diritto, anche solo nella limitatissima accezione del diritto a non provare sofferenza, e concentriamoci sulla contraddizione, talmente grossa da essere, a mo’ di purloined letter, invisibile: proprio tale condizione, tanto primaria da abolire ogni differenza tra uomo e animale, sarebbe all’origine dell’imperativo etico, il quale varrebbe però soltanto per l’uomo, appunto perché solo l’uomo è soggetto morale. A riprova di tale affermazione, valga il fatto che i comportamenti crudeli dei delfini, che stuprano e uccidono i cuccioli di focena e della loro stessa specie, o dei leoni, la cui violenza intraspecifica è molto superiore a quella umana, non vengono giudicati moralmente, salvo essere accusati, per l’appunto, di antropocentrismo. In altre parole, l’identità tra uomo e animale sancirebbe un dovere fondato sulla differenza tra uomo e animale. Se questo approccio è insensato, non credo però che lo sia la domanda a cui cerca di rispondere, e a cui credo siamo comunque chiamati tutti a dare una risposta. La pongo nei termini con cui viene espressa in un commento al suo secondo post: Prima di tutto dovrebbe spiegare perché non è giusto provocare sofferenze agli animali?” Perché se pensassimo che le sofferenze provocate agli animali fossero un che di moralmente indifferente, il problema non si porrebbe, e non solo per la sperimentazione ma per qualsiasi crudeltà. Invece, riteniamo che tali sofferenze siano comunque un male, che può essere accettabile per un bene maggiore (il topo sacrificato per la ricerca medica), e comunque da limitare al massimo (il topo sia sedato, gli esperimenti effettuati solo quando necessario e così via), ma non in tutti i casi (non, ad esempio, per la sperimentazione di cosmetici). Si potrebbe porre la questione in termini puramente quantitativi, come una contabilità della sofferenza accettabile per un dato bene, ma tale risposta avrebbe innanzitutto il difetto di essere arbitraria e imprecisa, tanto da faticare a immaginarla davvero dirimente: anche una volta accettata la sperimentazione limitata e controllata, cosa fare dell’uccisione di animali a scopo alimentare? E cosa fare, spostando l’asticella, dell’uccisione di animali a scopo ludico? Perché, in altre parole, la bistecca sì e la corrida no? Soprattutto, però, la questione resta: mentre è facile trovare dei motivi razionali per vietare l’omicidio, il furto o la menzogna, è difficile giustificare, una volta messa fuori causa l’empatia verso altri senzienti dalle motivazioni razionali delle prescrizioni morali, l’immoralità, o comunque la connotazione negativa, dell’infliggere sofferenza agli animali. Per provare a rispondere, devo cercare di chiarire un carattere fondamentale di ogni proposizione morale che abbia un senso: essa ha un carattere necessariamente intersoggettivo, ossia passa per il riconoscimento di un’alterità a cui si riconosce una validità o, per dirla in termini più pregnanti, una dignità. È nei confronti di questo altro che sono moralmente obbligato: in un mondo assolutamente solipsistico non ho obblighi, mentre già nel paradossale universo idealista di Berkeley, o nei primi passaggi cartesiani in cui ci sono soltanto l’ego cogitans e Dio, esiste per lo meno una matrice di moralità. Uscendo dalle iperboli metafisiche, la morale vincola rispetto a soggetti reali e interagenti, a partire dal loro riconoscimento. Un riconoscimento che non ha ancora, in questa fase, le caratteristiche della reciprocità: quando il vincolo è reciproco, dalla morale si passa alla norma, al diritto. Ma, e qui sta il punto cruciale, questa fase primigenia della morale senza reciprocità, in cui l’altro non è coobligato insieme a me, è una pura finzione filosofica: se devo agire verso altri secondo dei principi conformi alla mia condizione rispetto a questi altri, o tale condizione è fondata sul riconoscimento reciproco o i diritti che riconosco loro, in quanto non danno luogo ad alcun obbligo intersoggettivo, sono semplici diritti passivi, ossia concessioni, revocabili in qualsiasi momento, e un obbligo revocabile e dipendente dalle circostanze o dalla volontà non è un obbligo morale. Mi chiarisco: è chiaro che ogni ingiunzione morale può essere disattesa, ma il suo valore resta a dispetto dei fatti; se, invece, tale ingiunzione non ha un fondamento vincolante, ma riposa integralmente nella volontà, o nell’arbitrio, di chi se la impone, allora essa perde il suo carattere imperativo. Insomma, la morale è subito diritto, e credo che Hegel abbia ragione (anche) su questo. Vorrei essere chiaro: nel definire imperativi gli obblighi morali non intendo fare riferimento a dettami provenienti dall’alto di una rivelazione o comunque legati a una qualche immutabilità ontologica o esistenziale (come mi pare facciano gli antispecisti con la loro scaturigine dell’etica dal dato ontologico della sensibilità), ma a un carattere formale della norma. Essa è tale soltanto se ha un carattere generale o se riconduce comunque a esso, anche quando tale carattere fosse nel criterio generalissimo della maggiore utilità possibile per il maggior numero di individui, e tale carattere resta a dispetto di ogni convenienza o contingenza che, semmai, concorre a determinare e a specificare la norma. Provo, finalmente, ad arrivare al punto: da quanto detto finora, risulta che gli animali non possono essere soggetto di diritti, ma soltanto oggetto di concessioni. Detto questo, vorrei però esaminare il carattere del rapporto dell’uomo con gli animali, cercando di muovermi su un terreno di continuità, proprio per recuperare un piano di reciprocità. Credo che questo terreno sia quello dell’etologia e dell’ecologia, vale a dire della struttura dei comportamenti all’interno di modelli non morali ma comunque generatori di risposte complesse, vale a dire di significato, e delle interazioni tra specie all’interno di uno stesso ambiente. Ora, l’addomesticamento di numerose specie animali è avvenuto su un piano di reciproca convenienza, ossia di simbiosi: le diverse specie addomesticate hanno visto un netto incremento del loro successo riproduttivo, della disponibilità di cibo e riparo, dell’estensione stessa del loro habitat. L’uomo, a sua volta, ne ha ricavato a sua volta fonti di cibo più variate, affidabili e abbondanti, oltre a tutta una serie di altri benefici per attività che lo caratterizzano in modo peculiare rispetto agli altri animali, dal vestirsi al guerreggiare. In altre parole, se l’uomo non si nutrisse (anche) di bistecche, ci sarebbero molte meno mucche sul pianeta. Del resto, da quando non si usa più la trazione animale, ci sono molti meno cavalli e asini: l’introduzione dei veicoli a motore è stata, in questi termini, una catastrofe ecologica per tali specie. A queste condizioni, la sofferenza del singolo animale è, dal punto di vista di questa economia simbiotica, accettabile nella misura in cui essa fa parte delle condizioni del successo evolutivo di tale specie: il maiale può essere macellato per farne salsicce, dal momento che le salsicce sono la ragione per cui la specie del suino domestico è enormemente più numerosa di quella del suino selvatico. È altrettanto chiaro che questa sofferenza va tenuta al minimo necessario, dal momento che ogni specie, e ogni individuo di ciascuna specie, ha il chiaro interesse a non soffrire. In questo senso, il mutare delle condizioni reali può spostare il livello di sofferenza accettabile: il cavallo di un carrettiere faceva una vita indubbiamente peggiore di un cavallo da maneggio, ma in entrambi i casi la specie equina godeva di un vantaggio simbiotico. Fin qui, il tentativo di inquadrare la questione in senso ecologico. Passando al versante etologico, ritroviamo l’intero universo di relazioni e di empatia che osserviamo tra ogni animale, uomo ovviamente compreso. Insomma, è palese il fatto di un reciproco investimento emotivo tra uomo e animale, che avviene secondo forme di fatto codificate: si riconosce quando un cane è amichevole, esistono segnali e comportamenti che possono indurre alla tranquillità o all’aggressività mammiferi di specie diverse, e così via. Si riscontra una notevole continuità nel comportamento umano e in quello animale, e non sembra peregrina l’ipotesi che alcuni comportamenti degli aggregati umani siano più simili a quelli dei canidi che degli altri primati, fino a poter ritenere, come fanno diversi paleoantropologi, che alcuni caratteri delle prime società umane siano stati fortemente informati dalla presenza dei cani. Ciò giustifica ampiamente la repulsione che proviamo verso le sofferenze di altri esseri senzienti,  e persino la legittimità di legiferare per il loro massimo contenimento: infliggere sofferenze senza uno scopo è crudele, e la crudeltà è repellente e socialmente distruttiva; di conseguenza, reprimiamo la crudeltà. Detto per inciso (giuro, è l’ultimo inciso), questa proposizione vale anche in una prospettiva morale di utilitarismo debole, ma ciò è dovuto al fatto che l’utilitarismo debole (vale a dire, una prospettiva che non ponga la massima utilitarista come imperativo morale, ma come semplice criterio organizzativo) non è una dottrina morale, neanche intesa come morale “dal basso”. Lo è invece  l’utilitarismo forte (alla Bentham), che, proprio perché si dota di una massima semplice e dotata di una certa evidenza, è una dottrina morale abbastanza elegante ed efficace. Allo stesso modo, limitare le sofferenze degli animali da laboratorio o garantire buone condizioni di vita agli animali da allevamento non è ipocrisia, come sarebbe se esistesse un imperativo morale a cui si tributasse l’ossequio della forma per poi tradirlo nella sostanza, ma una scelta dettata dalla nostra empatia animale e, a fortiori, umana; scelta che è perfettamente funzionale all’economia simbiotica di cui sopra. Da qui al diritto, però, c’è un abisso.


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