Corrotti nel Dna. Siete d’accordo con Roberto Saviano?

Da Maurizio Lorenzi

Ecco l’intervista allo scrittore Roberto Saviano, tratta dalla rivista Left.

Onestamente, difficile non essere d’accordo con lui…

Governo, Pd, cooperative, destra. Roberto Saviano non fa sconti a nessuno. Mafie e corruzione sono il frutto avvelenato di un Paese che per troppo tempo ha finto di non vedere – di non vedersi – per colpa «della complicità, dell’inadeguatezza e dell’inedia della classe politica che rappresenta il peggio del peggio in Italia». Sono gli ultimi giorni del 2014 e la nostra conversazione non può che girare attorno a uno degli scandali più recenti: Mafia Capitale. Un pretesto per raccontare il potere attraverso la lente di un sistema che non è solo romano. Funziona così in tutta Italia. Dove politica, impresa e criminalità organizzata a volte rischiano di confondersi in una comunione marcia di interessi. «Fino a che il governo non deciderà di contrastare il segmento economico delle organizzazioni criminali, i loro metodi e le loro prassi resteranno un modello vincente e come modello vincente modificheranno – lo hanno già fatto – il dna anche culturale del nostro Paese».

Saviano, nel suo editoriale Il Paese che vive nella Terra di mezzo ha scritto: «In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste». Ecco, chi sono quelli che “non vogliono vedere”?

Chi non vuole vedere è chi crede che le mafie siano storie di paese che coinvolgano solo chi spara e chi viene sparato. Non vuole vedere chi considera il giornalismo italiano un giornalismo sano quando per molta parte è condizionato, infiltrato, ridotto a strumento che una volta smascherato pensa che si possa risolvere tutto con una dichiarazione pubblica. Non vuole vedere chi ha consentito all’imprenditoria vincente delle cooperative di fare affari in maniera tutt’altro che trasparente, mediando e stringendo alleanze con la politica, in un meccanismo che se pur senza prove ufficiali tutti conoscevano e riconoscevano, ma che nessuno era disposto a denunciare. Ma non vuole vedere anche questo governo che riduce la propria attività antimafia alla scelta di probiviri. Sono convinto che in fondo rifugga la questione criminalità organizzata per non esserne macchiato, perché si sente in qualche modo estraneo alle logiche criminali e non vuole affrontarle, perché teme che in questa melma si rischi moltissimo, che in questa melma ci si possa lordare, insozzare, finanche affondare.

La procura di Roma ha scelto la linea dura – e per certi versi rivoluzionaria – contestando il 416 bis anche al mondo politico. Per intenderci, Dell’Utri e Matacena sono stati condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, Alemanno viene considerato affiliato a un’organizzazione. Crede che un’accusa del genere possa reggere fino al terzo grado di giudizio?

Dire adesso come si concluderà questo processo è impossibile. Personalmente credo che le accuse reggeranno perché conosco il lavoro di Giuseppe Pignatone, so che le accuse sono circostanziate e sorrette da prove concrete. L’opinione pubblica come sempre è stata inondata di intercettazioni telefoniche e ambientali, alcune pertinenti altre di colore, ma l’inchiesta, le accuse e gli arresti si sono basati sul riscontro di quei dialoghi, sull’effettivo passaggio di denaro in cambio di favori. Il reato contestato e per cui sono stati condannati Dell’Utri e Matacena, ovvero il concorso esterno in associazione mafiosa, indaga un terreno molto delicato, getta luce sulla zona grigia, sull’anello di congiunzione tra mondo politico e mondo mafioso. Nel caso di Alemanno, e di altri politici coinvolti nell’inchiesta, sta passando l’idea che la Procura abbia adottato la linea dura perché tendiamo a identificare l’associazione di tipo mafioso con armi, morti, sparatorie e sangue. In molti casi è così, ma in moltissimi casi – direi nella stragrande maggioranza dei casi – si tratta di intimidazioni, di assoggettamento, di omertà finalizzata all’acquisizione «in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».

Proprio come Dell’Utri e Matacena, neanche loro sono protagonisti di fatti di sangue…

E difatti il concorso esterno è proprio un reato che configura un appoggio non di tipo militare. È parte proprio della definizione di partecipazione esterna avere un ruolo che porta vantaggio all’organizzazione senza esserne parte.

Eversione nera e organizzazioni mafiose. Un binomio che non stupisce più. Cominciano a diventare tante le inchieste in tutta Italia – basti pensare a Mokbel e Guaglianone – che scoprono legami forti tra questi due mondi. Da dove nasce questa comunione di interessi?

No certo, è un binomio che non stupisce più. In realtà credo tutto dipenda da una serie di fattori. Il primo è che finita la fase di contrasto ideologico, i legami instaurati tra parti dello Stato e comparti extraparlamentari, i più estremisti, spesso utilizzati per i lavori sporchi, tendono a trasformarsi in legami d’affari. L’estremismo di destra, non tutto ovviamente, ha spesso vantato una certa capacità operativa militare che è tornata utile in certi frangenti politici. Da qui a operazioni di tipo differente, meramente economiche, il passo è breve e, aggiungerei, naturale. La grande eredità che i gruppi di destra portano alle mafie è anche l’interlocuzione con parti dei Servizi. È il segmento più inquietante dell’inchiesta “Mafia capitale” e forse il meno discusso: uomini con auto intestata alla Questura di Roma che avvertono Carminati delle indagini. Chissà se mai sapremo…


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