La trama (con parole mie): Jeremiah Johnson, un ex soldato stanco della vita nel mondo civilizzato, abbandona tutto e tutti per divenire un cacciatore tra i monti del Colorado. Passati mesi in completa solitudine e conosciuto ogni aspetto della Natura e dei suoi molteplici aspetti, da quelli belli da togliere il fiato a quelli crudeli da perderci la vita, l'uomo verrà in contatto con il vecchio Artiglio d'orso, che lo metterà in guardia dalle possibili minacce e lo addestrerà come solo decenni passati lontano dal mondo civile permettono di essere addestrati.Ripreso il suo cammino, Johnson entrerà in contatto con le diverse realtà degli abitanti delle più remote zone della Frontiera, dai Nativi americani con le loro differenti usanze e tribù ai cercatori d'oro e fortuna, fino a quando l'equilibrio raggiunto verrà turbato dal passaggio di un distaccamento dell'esercito: il dramma che ne seguirà porterà di nuovo Jeremiah a viaggiare solo tra i monti, divenuto una leggenda rispettata perfino dal più temibile dei guerrieri Crow.
Di tanto in tanto, quando mi capita di tornare lungo la Frontiera del West, provo una sensazione di calore come quando, al termine di un viaggio, si apre una volta ancora la porta di casa: il sapore ed il brivido che i western continuano a regalarmi sono gli stessi che provavo da bambino, quando con mio nonno scoprivo la mitologia di John Wayne e dei Nativi americani, da Ombre rosse a L'uomo che uccise Liberty Valance, e che ha contribuito non solo a formarmi come spettatore, ma come persona.
Era proprio risalente a quei tempi la mia ultima visione di uno dei più grandi cult degli anni settanta che il genere abbia regalato al suo pubblico, appartenente forse più alla generazione dei miei genitori che non a quella, per l'appunto, di mio nonno, e già intrisa del fascino che la smitizzazione successiva del West delle leggende avrebbe vissuto fino ai più recenti Dead Man e Gli spietati: Corvo rosso non avrai il mio scalpo!, divenuto nonostante un adattamento pessimo del titolo giustamente uno dei riferimenti cinematografici della carriera di Robert Redford e di Sidney Pollack, ispirando, tra gli altri, Berardi e Milazzo nella creazione di Ken Parker, uno degli eroi a fumetti favoriti dal sottoscritto di tutti i tempi, ha mantenuto negli anni lo stesso fascino che aveva allora.
Sceneggiato, tra gli altri, dal John Milius che divenne in seguito noto per Conan il barbaro e Un mercoledì da leoni - storico sostenitore dell'epica di grande respiro e rappresentate dello zoccolo duro dei registi "repubblicani" formatisi proprio negli anni settanta, come Friedkin e Eastwood - Corvo rosso è un racconto di formazione lontano dagli standard del tipico western, una vicenda dai ritmi dilatati - in questo, ricorda molto il già citato Dead man, solo in versione meno lisergica - che si concentra sulla maturazione del suo protagonista, Jeremiah Johnson, esploratore e cacciatore pronto a prendere le distanze dalla società "civile" solo per vedersi almeno in parte seguire dalla stessa nel cuore dei monti del Colorado, tra i territori che furono teatro di alcuni dei massacri dei Nativi americani e delle rappresaglie organizzate dagli stessi contro i bianchi: in questo senso è interessante notare l'atteggiamento di Johnson rispetto a chiunque incroci il suo cammino in quelle terre selvagge e meravigliose, decisamente differente rispetto a quello degli eroi - o antieroi - del Western classico e da quanto ci si aspetterebbe di scoprire considerato il già segnalato e poco azzeccato titolo italiano, che lascia quasi presagire il tipico filmone da battaglia tra soldati e Nativi pronti ad ammazzarsi gli uni con gli altri senza requie.
L'avventuriero, infatti, assume un comportamento il più possibile razionale e rispettoso, in modo da mantenere un equilibrio e rapporti di pace con gli altri cacciatori, i Nativi e chiunque attraversi le montagne, finendo per apparire più umano e vicino all'audience di quanto non possano sembrare, al contrario, main charachters tutti d'un pezzo più legati alla fiction che non a quella che poteva essere la realtà di quei tempi e luoghi: questo atteggiamento equilibrato ma ugualmente risoluto non limita, comunque, le capacità e la resa come uomo d'azione di Johnson, pronto all'occorrenza a far valere la sua presenza, il carattere ed i sentimenti.
Un protagonista, dunque, in grado di regalare uno spessore notevole ad un film che fa dell'atmosfera e del respiro da grande epopea i suoi punti di forza, cui si affiancano comprimari che con una manciata di sequenze riescono ad entrare nel cuore dell'audience, dal piccolo e silenzioso Caleb ad Artiglio d'orso, culminati con la narrazione del periodo più felice di Jeremiah - che corrisponde alla scelta di divenire "stanziale" e circondarsi, pur se quasi per caso, di una famiglia - ed un finale potente ed emozionante, che trova nel confronto a distanza di Johnson, tornato a vagabondare come all'inizio della sua avventura, e l'altrettanto rispettato in quei luoghi guerriero Crow dal volto dipinto di rosso.
Un momento lirico e maestoso come le montagne che lo circondano, pronto a rendere leggendario un personaggio che, al contrario, pare assolutamente vero e reale.
Un Uomo alla scoperta della Frontiera e di se stesso.
MrFord
"The way you wonder is the way that you choose
the day that you tary, is tha day that you lose
sunshine or thunder, a man will always wonder
where the fair wind blows
Jeremiah Johnson made is way to the mountains,
he was bettin' on forgettin' all the troubles that he knew."
Beau Jennings - "The ballad of Jeremiah Johnson" -