La complessa articolazione relativa alla presenza dei latinoamericani in Italia traspare anche nel momento in cui è necessario stabilirne i tratti distintivi come gruppo d’indagine. Alain Rouquié ha scritto che è il concetto stesso di America latina che crea problemi e lo fa perché è espressione complessa, che rimanda a molteplici significati e punti di vista, mostrando, di volta in volta, nuove sfumature. Eppure l’eterogeneità a cui si fa accenno è caratterizzante di questo continente, il quale racchiude in sé forti similitudini e altrettanto significative contraddizioni, rompendo l’immagine di l’America Latina come un unico spazio geo-storico-culturale, all’interno del quale si è tentato spesso di racchiudere il continente, sottovalutando o eludendo le singolarità nazionali e le peculiarità di ogni paese.
A similitudini storiche (il passato coloniale, la conseguente fase di guerre per l’indipendenza, l’avvicendamento di influenza economica e politica inglese prima e statunitense poi) si affiancano contraddizioni politiche (la diversa amministrazione coloniale da parte di spagnoli e portoghesi, le esperienze minori di inglesi, olandesi e francesi, sviluppi singoli a livello nazionale delle giovani repubbliche dopo l’indipendenza, l’attuale fragilità delle democrazie); similitudini linguistiche e religiose (lo spagnolo si è imposto come lingua nazionale in tutti i paesi dal passato coloniale spagnolo e il portoghese in Brasile, eppure entrambe sono lingue nettamente segnate dai localismi e dagli indigenismi che coesistono con lingue amerindie ancora vive; mentre il cattolicesimo, altra grande eredità dei colonizzatori, si è andato fondendo con le realtà religiose preesistenti sfociando in sincretismi di varia natura) si mescolano con profonde contraddizioni economiche (la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, le sacche di povertà ancora irrisolte a fronte di un ristrettissimo numero di possidenti che gestisce il potere economico e politico).
D’altra parte anche lo spazio geografico latinoamericano sembra cambiare i propri confini a seconda che lo si consideri come spazio linguistico (paesi di lingua spagnola, portoghese, francese, olandese ecc.); economico (area del Mercosur, area del Patto Andino o aree organizzate in base ad accordi bilaterali o multilaterali tra paesi); territoriale (area carabica, regione andina, cono sud, centramerica ecc.) o come spazio demografico (aree marcate da popolazione di origine india, europea, africana, meticcia).
Insomma un continente che continua a presentare notevoli differenze e disparità tra un paese e l’altro.
E allora il quesito resta. Il termine “latinaomericano” è valido? Esiste un’America Latina unitaria o piuttosto molte Americhe latine? Il fatto è che nel senso comune, nell’opinione comune, “America Latina” è un concetto culturale che rimanda ad uno spazio geografico che ha avuto origine con l’arrivo degli spagnoli i quali, seguendo chiare strategie imperialistiche, l’hanno colonizzato non solo territorialmente e politicamente, ma anche culturalmente, marcandone in modo indelebile i tratti.
Quindi America Latina è “invenzione” europea perché rappresentazione di progetti imperiali, rispondente alla visione che gli stessi europei avevano del mondo e proiezione di mire espansionistiche economico-politiche del Cinquecento che hanno messo a tacere la realtà preesistente, rafforzata in seguito dal concetto di “latinità” che rimanda ancora a mire espansionistiche ma della Francia di fine XIX secolo, quando intellettuali e funzionari utilizzarono questa idea per “rivendicare” una naturale continuazione di dominio sui territori oltreoceano contesi da più parti. All’ingerenza storico-politica europea, e quindi al predominante carattere europeo che le società latinaomericane hanno acquisito, si affianca infine il contributo dato dalle massicce ondate migratorie provenienti proprio dal Vecchio Continente che, in alcuni paesi (come Argentina e Uruguay), sono state fondamentali anche per lo sviluppo economico e politico.
Ma allora “latinoamericano” sarebbe solo un concetto ideato e imposto dall’esterno, dall’Europa in particolare, da quei paesi che sembrano non accorgersi dell’esistenza di specificità nazionali, mentre gli stessi “latinoamericani” (termine ora utilizzato come categoria mentale europea imposta ad una eterogeneità di genti) rivendicano le loro appartenenze identitarie su base nazionale?
La conclusione più adeguata pare ancora quella proposta da Rouquié quando dice che, se l’America Latina esiste, la sua esistenza è verificabile solo per opposizione e dal di fuori (Rouquié).
Oltre i nazionalismi, i particolarismi, le singolarità si sarebbe creata nel tempo una sovra-struttura identitaria che ormai non è più esclusivamente quella imposta dal cosiddetto Primo Mondo per identificare le persone provenienti da una specifica area geografica, ma avrebbe acquisito altre sfaccettature, costruendosi come identità all’interno della quale i latinoamericani stessi si riconoscono. Il nuovo valore dato al termine sembrerebbe concretizzarsi in modo più evidente nell’esperienza migratoria.
Sifuentes-Jáuregui, a proposito del concetto di identificazione latinoamericana, scrive:
Podemos fácilmente argüir que la identidad latina es multifacética y compleja, y también que la idea y el ideal de ser «latino» son puestos en marcha de manera diferente por cada uno. En otras palabras, la manera en que cada uno se identifica (o no) con la, en apariencia, estable identidad de latino o latina necesariamente va a variar. Esta variación o fluidez corresponde exactamente al trabajo de la identificación. (1)
Sottolineando che l’identità non è mai stabile e che l’identificazione potrebbe non avere mai fine, dovremmo, quindi, definire l’identità latina la meta politica del migrante (inteso come individuo che abbandona il proprio spazio nazionale), mentre l’identificazione il processo di relazioni necessario per raggiungere tale meta che, nel suo svolgimento, contribuisce a creare nuove coalizioni sociali e politiche e che si sostanzia maggiormente proprio in fase migratoria.
Calando questo discorso sulla realtà campana e napoletana in particolare, spazio all’interno del quale vive un piccolo (confrontato coi valori di distribuzione nazionale degli immigrati e regionali rispetto a gruppi di altra provenienza) gruppo di immigrati provenienti dall’America latina, ci si chiede dunque se è possibile, anche in questo contesto, parlare di immigrati “latinoamericani”; se esistono le condizioni che permettono a questi stessi immigrati di identificarsi e riconoscersi in un modello identitario comune; e se la riformulazione identitaria, inevitabile per i gruppi deterritorializzati e privati del loro ancoraggio territoriale, avvenga solo in funzione della comune esperienza migratoria e delle difficoltà che essa comporta o, piuttosto, riesca a ritrovare e riproporre valori originari trasportati nel percorso migratorio; se ci sono, e quali sono, le strategie adottate per rivendicare la propria identità come base di un gruppo compatto e come strumento di valorizzazione del soggetto (dell’io-migrante) nei confronti di se stesso, degli altri immigrati e della popolazione locale; ovvero, infine, appurare l’esistenza di una sovra-struttura identitaria che superi le eterogeneità nazionali, facendo di un gruppo tanto disomogeneo una “comunità”.
Per rispondere a queste e altre domande, il saggio Napoli, barrio latino si muove innanzi tutto sul campo, in un necessario lavoro di raccolta dati attraverso un’analisi della presenza latinoamericana a Napoli di tipo qualitativo.
Nota.
(1) Nel suo articolo ¿Unas o varias identidades?, Yúdice, descrivendo il percorso migratorio dei salvadoregni negli Stati Uniti che, dal punto di vista identitario, vengono lentamente inglobati nella macro-categoria dei latinos, riferisce che un grande contributo a questo processo è stato dato dalle stesse istituzioni perché “a partir de la ley de 1965 que estableció cuotas de 20.000 personas por país de origen, los demás inmigrantes latinoamericanos fueron conformando, para las instituciones estatales y sociales, una sola gran panetnicidad”.