Poi c’era un’altra guerra, quella narrata dai nonni, dagli zii e dai miei genitori: la guerra dei bombardamenti, della fame, dei parenti sfollati che arrivarono via mare da Napoli a casa dei nonni , dei soldati inglesi che occuparono l’appartamento dei nonni, della catasta di cappotti da rammendare nell’atrio del portone , della nonna e della zia che vigilavano sulle figlie alle quali i soldati regalavano sguardi e sorrisi, carne in scatola e cioccolato. Fatti che mi incuriosivano, mentre mi rattristavano quelli di papà sulla fame e sul nonno che finì in un campo di prigionia in Egitto. Ieri volevo chiedervi se ricordate più o meno a che età, da bambini e da ragazzi, avete capito cos’è la guerra. Per quel mio alunno, che aspettava una mia risposta, ho trovato parole banali, che non turbano, perché essa evoca solo parole nere: morte, distruzione, dolore, fame, perdita della casa, dei cari, delle fiabe e dell’ingenuità. “La guerra riguarda i grandi, che a volte non si capiscono o vogliono per forza qualcosa e diventano prepotenti e bisticciano” “con i fucili e le mitragliatrici…” aggiunse il combattente di classe. In verità a quel bambino non volevo rispondere e mi sono poi chiesta che risposta si danno quei bambini che davvero vivono la guerra.
Ora sto pensando a cosa dire ai miei alunni di sette anni se lunedì faranno domande sulla strage di Parigi.