L'agonia, una lotta mortale
L'agonia, come indica il suo nome (in greco agôn), è una battaglia, una lotta. Lotta contro la morte o ultima battaglia per la vita? Il fatto è che la carne non si arrende senza combattere. Quella carne che ci ha mantenuto in vita per tanto tempo non cede facilmente e, quando lo spirito si crede pronto, essa alza il tono e reclama la sua parte.
In poche righe, i vangeli presentano questa lotta nelle due scene dell'ultima notte di Gesù nell'orto del Getzemani e della morte sulla croce. Innanzitutto, la supplica: “Padre, allontana da me questo calice”, poi il consenso: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”. Ma, tra le due scene, l'evangelista Luca descriverà il terrore della carne: “il suo sudore divenne come grosse gocce di sangue che cadevano a terra”, mentre Matteo fa dire a Gesù che “lo spirito è forte, ma la carne è debole”. Matteo, come Marco, segnerà l'ultimo grido del crocifisso: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” Lontano dallo stoicismo di Socrate che muore filosofeggiando, l'uomo di Nazareth muore “come tutti”, nella lotta della carne. Più vicino a noi, la psicanalista Françoise Dolto stupiva una delle sue amiche che la sapeva saggia, cosciente del proprio stato e profondamente credente, versando lacrime su se stessa qualche giorno prima della sua morte. Françoise aveva allora detto quella frase terribile: “È la carne che piange”.
Non sappiamo se sapremo sopportarlo. Temiamo di imporlo ai nostri cari. In questa materia, tre grandi timori si uniscono: quello di lasciare coloro che amiamo e che forse hanno bisogno di noi – e il dispiacere di morire senza che qualcuno senta la nostra mancanza non è certo meno vivo -, la sofferenza di quell'impensabile che è la morte e la rivolta della carne che si tradisce in dolore. Ecco perché la cura verso i morenti è un accompagnamento. Non basta attenuarlo il più possibile, addormentandolo, il grido del corpo che si rifiuta di morire, bisogna anche avanzare verso il “non essere più” o, se si è credenti, verso un “essere altro”, un “essere al di là”, di cui non sappiamo niente. Su questo cammino, l'esperienza mostra che una mano fraterna è il più prezioso dei viatici.
Resta il fatto che non immaginiamo con gioia questa ultima tappa. Pochi di noi, come Stéphane Hessel, oseranno andare verso la morte pensando che essa è “forse l'esperienza più interessante della vita”. Quando parliamo di eutanasia, quando i sondaggi rivelano che otto francesi su dieci si augurano di poter scegliere la loro morte, senza dubbio è l'ammissione della paura assolutamente legittima di non saper fare. Al di là del terrore davanti ai trattamenti pesanti, davanti al disfacimento del corpo, c'è senza dubbio il sogno di “morire senza morire”, cioè di scavalcare questa via di mezzo, di evitare la lotta. Dato che l'esito è conosciuto ed è fatale, è proprio necessario battersi fino alla fine? Il modello della capra di Monsieur Séguin che combatte tutta la notte, pur sapendo certa la sua fine, non ha molto successo. Dov'è l'onore, dov'è la dignità, dov'è la libertà di un essere umano?
È nel diritto di scegliere di morire o in quello di vivere, di combattere... e di morire? Certamente non vi è una risposta standard. In questa materia, ogni avventura, ogni battaglia è unica. È saggio tuttavia che la legge metta dei paletti, perché colui o colei che muore non è solo. Per quanto lo esiga la nostra libertà, noi apparteniamo ad una comunità umana, e la nostra vita, come la nostra morte, non ci appartengono totalmente.
Christine Pedotti in “Témoignage chrétien” -