Spesso mi trovo a discorrere d’arte, ricercando con piacere la bellezza e la perfezione, sempre in bilico ispirazione, creatività, ingegno, banalità, suggestione.
Guardando le opere del passato, complice il mio lavoro di restauro, ne studio la perfezione delle linee, la pregevolezza del tatto, la finezza dei tratti, la scelta dei colori e dei materiali, l’armonia. Sì, perché un’opera d’arte, oltre a tendere al bello, deve, anzi, dovrebbe, tendere all’armonia quando si inserisce in un contesto nuovo.
Altrimenti rischia di essere una meteorite gettata a caso.
A seguito della violenta distruzione del terremoto umbro-marchigiano del 1997, la Commissione episcopale italiana indice un concorso per la realizzazione di una nuova chiesa nel territorio di Foligno. Il concorso viene vinto dall’architetto-archistar Massimiliano Fuksas (qui il suo sito) che con la collaborazione della moglie Doriana, realizza nel 2009, la chiesa di San Paolo Apostolo.
Questa
Questo l’interno
e questo il contesto urbano esterno nel quale Fuksas ha inserito la sua monumentale opera.
La Conferenza Episcopale, dopo aver visto il risultato, è rimasta ferma nelle proprie convinzioni di opera d’arte innovativa, con una profonda rottura dal passato, ma dalla gente comune ai massimi esponenti dell’arte e della cultura, si sono levati disappunti e critiche molto forti. Persino Bernardo Cuccinelli, filantropo e amante del bello, si è proposto di sponsorizzare l’abbattimento della chiesa di Fuksas. E Vittorio Sgarbi, pur amante delle provocazioni, ne critica la realizzazione per il suo inserimento brutale nel contesto paesaggistico.
Massimiliano Fuksas sostiene che la chiesa di Foligno sia l’opera più intensa ed importante della sua carriera; il vescovo Monsignor Sigismondi, durante l’omelia, così la descrive: “Si tratta di un complesso edilizio che, essendo slanciato e proiettato verso l’alto, disegna un dialogo tra cielo e terra, che consente di intuire che la Chiesa pellegrina sulla terra si configura come vera e propria cripta della basilica della nuova Gerusalemme, la città santa che, come dice l’Apocalisse, “è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza” (cf. Ap 21,16); immediatamente dopo l’Autore sacro precisa che “la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali”, lasciando intendere che è a forma di cubo!».
Ammetto che mi riservo l’ultima parola quando la vedrò di persona, ma dalle immagini trovate nel web, posso solo dire che è brutta; che per quanto fossi ricca di fede, pregare dentro ad un cubo mi verrebbe ostico e poco sarei propensa a pensieri elevati e celestiali. Non posso dire per certo, ma temo che anche l’acustica sia pessima. Se ci si potesse fermare solo all’opera in sé, potrebbe essere uno dei consueti tentativi dell’arte contemporanea di scioccare e rompere gli schemi, dando degli sciocchi ai poveri cristi come noi che la troviamo orribile, donando invece all’artista il premio per l’innovazione; ma questo immenso cubo di cemento armato è entrato a gamba tesa in un contesto urbano e paesaggistico, già fortemente provato dal terremoto, che aveva solo bisogno di delicatezza ed armonia, non di un monito di durezza e dolore.
Detto questo, riflettendo al futuro, cosa resterà di un cubo di cemento armato ai nostri posteri? Tra 200, 300 anni, se ancora l’opera di degradamento del cemento armato non avrà completamente distrutto la chiesa, ci saranno gite di turisti con le loro macchine fotografiche pronte ad immortalarne il contorno? Ne tesseranno le lodi, ne renderanno ringraziamento all’architetto, alle maestranze, a chi ne ha commissionato la realizzazione?
Cosa c’è dentro ai nostri cuori del 2000 che permette di realizzare questo
di differente dai cuori di chi, nel 1009, a Trani, ha costruito la sua cattedrale?
Chiara