Ero al supermercato per fare un po' di spesa, in un giorno grigio di una stagione di mezzo. I miei pensieri si sforzavano di tacere, di non configurarsi assolutamente in parole. Avevo scoperto - forse m'illudevo - che quello era un buon metodo per non soffrire nella vita. Formulare la minor quantità possibile di parole, quindi fissare nella mente il minor numero possibile di concetti. Volevo che la mia mente fosse come una bacheca di sughero appena comprata. Senza troppe puntine conficcate sulla sua superficie morbida. Era uno stato d'animo come un altro, in quel momento per me funzionava.
Cercavo questo e quell'altro sugli scaffali, sicura di quel fatto del giglio, che Dio provvede alla sua vita e al suo splendore, anche quando non sai bene come fare, pur non formulando nella mia mente il concetto di Dio o di vita o di giglio o di splendore o di provvedere o di nulla; dato quel mio esercizio di non pensare utilizzando parole. Ne ero sicura ma non ci pensavo, ecco, qualcosa del genere.
Il carrello aveva una ruotina difettosa, ma, non volendo pensarci, la cosa non mi disturbava affatto.
Di colpo, ho inchiodato. Mi sono fermata di fronte a una cosa che giaceva per terra, quieta e priva di senso: una gabbia con dentro un coniglio.
L'occhio del coniglio, tondo, marrone e liquido, scavato nel corpicino soffice e bianco, guardava il mondo con spavento. Il piccolo naso annusava l'aria di continuo. La sua esplorazione della realtà circostante era fin troppo simile alla mia. Uno sguardo terrorizzato, un controllo dell'aria che c'è intorno, casomai si presentasse un eterno pericolo. In quel momento ho capito che quella cosa di non pensare con parole non era un gran che. Che qualche parola, di tanto in tanto, avrei dovuto continuare a dirla, a pensarla, a leggerla e a scriverla. Il coniglio, per esser così com'era lui, così come ero io: vulnerabile, piccolo, indifeso: alla fine era capitato in una gabbia. Grande, comoda, ma una gabbia poggiata per terra, dimenticata.