Mentre nel vigneto trentino si ripropone il Pinot grigio come varietà su cui puntare sfumando anche sullo Chardonnay che attende un serio programma di rilancio almeno con la denominazione Trento ed in attesa delle risposte delle due Commissioni provinciali che non verranno prima dell’estate, tentiamo qui noi ora, in tre puntate, di dare qualche elemento di riflessione per un territorio come il Trentino, partendo da un po’ di storia.
A livello regionale la ricostruzione dei vigneti nel dopoguerra aveva inizialmente visto prevalere a nord di Trento la Schiava come varietà-base per i vini allora più richiesti dal mercato, con un consolidamento di Pinot bianco e Lagrein nelle zone vocate altoatesine, del Teroldego e del trittico Schiava-Merlot-Lambrusco a sud di Trento. Il Trentino è stato di supporto alla commercializzazione altoatesina fino agli anni ’90 soprattutto con la Schiava ed i bianchi, mentre i rossi più corposi si collocavano convenientemente sul mercato di Verona. Parliamo di sfuso, ovviamente. L’imbottigliato, a parte Cavit, era saldamente nelle mani dei commercianti ed il segmento di maggior qualità appannaggio di rare aziende agricole (Bossi Fedrigotti, in primis). Ben altro scenario in Alto Adige dove la storica borghesia vitivinicola resisteva bene al desiderio di affermazione delle Cantine sociali che, pur sviluppandosi negli anni, non avranno mai la schiacciante prevalenza che si registrerà in Trentino. Dopo lo scandalo del metanolo (1986/87), cambiato l’approccio storico dei consumatori con il vino (si è iniziato a bere meno, ma meglio), sotto lo stimolo dell’Istituto Trentino del Vino (già Comitato vitivinicolo) si è verificata una rivoluzione colturale anche nelle nostre cantine e nelle campagne. Da un sistema “product oriented” si è passati al “marketing oriented”, cioè un modello che non cercasse più di vendere quello che si produceva, ma di produrre ciò che i mercati richiedevano. C’è voluta una generazione, ma l’obiettivo fu centrato. In Trentino – che partiva dietro rispetto a Bolzano (eccezione per spumanti e grappe), dopo aver vinto la diatriba per l’annosa querelle del Caldaro – si decise di non insistere con i vini a base Schiava, per cui oltre al Caldaro, si abbandonò la spinta anche per il Casteller e per il Valdadige rosso che non trovavano più i consumatori di un tempo. Negli stessi anni in Alto Adige, sulla base di ben più radicate tradizioni etnico – culturali, la Schiava resistette in coltura passando dalla denominazione Kalterersee a quella di Suedtiroler Vernatsch che non avrebbe potuto essere carpita da Trento. In pari tempo però, sia in Trentino come in Alto Adige si svilupparono progetti territoriali che miravano a condurre sotto il cappello di queste due grandi denominazioni sia l’ampio ventaglio varietale dei bianchi e dei rossi (una trentina di tipologie), sia le preesistenti DOC di minor dimensione. Eccezione a Trento per il Teroldego che volle mantenere la sola aggettivazione di “rotaliano”. Bolzano dovette rinunciare al primato nazionale nell’export nazionale che vantava dal dopoguerra – che aveva sì rinforzato l’economia, ma che l’obbligava a massicci acquisti di sfuso extraprovinciale difficili da gestire con la necessaria coerenza al sistema delle DOC – e si concentrò in un grande afflato interprofessionale attorno alle sue più nobili e moderne varietà. I risultati non tardarono a venire, sul piano del prestigio assoluto prima ancora che su quello economico dove il confronto con Trento si è sempre mantenuto vivace.
In Trentino, infatti, la via dello sviluppo vitivinicolo degli ultimi 20 anni si è discostata significativamente, da quella altoatesina. Sulla base di una superficie vitata quasi doppia, le scelte politiche furono di favorire lo sviluppo delle cooperative a discapito delle aziende agricole singole e dei commercianti-industriali; le prime dovettero attendere un cambio generazionale per rialzare la testa, mentre i secondi sparirono pressoché tutti. Una grave perdita di professionalità che inciderà non poco sugli scenari futuri. Lo slancio ai mercati degli anni ’90 permise al Trentino di colmare il gap economico che lo divideva dai cugini a nord di Salorno dai quali aveva mutuato, ingigantendola, un’impensabile indole commerciale. Funzione questa passata nel breve volgere di una generazione dalle storiche famiglie dei commercianti di vino alle agili spalle di alcuni manager cooperativi che ampliarono al nord America il loro raggio d’azione. A monte, gli incentivi sull’autofinanziamento avevano risolto anche lo storico problema della scarsa capitalizzazione delle Cantine sociali, permettendo la costruzione o ristrutturazione degli stabilimenti e la dotazione di macchine ed attrezzature moderne. Il tutto, come detto, grazie a cospicui interventi pubblici. E’ cronaca dell’ultimo decennio o poco più, la fantastica performance del Pinot grigio delle Venezie che ha condizionato tutto e tutti sul piano economico non meno che su quello dei valori più nobili. (1di 3 – Continua)