Qui, in questo blog, parliamo d'infertilità, a volte seriamente, altre cercando di sdrammatizzare, ma spesso mi sono resa conto che il mio punto di osservazione è personale e in quanto tale limitato.
Nel mio caso la diversamente fertile sono io e anche se è e rimarrà sempre un precorso di coppia ci sono questioni che solo io posso affrontare e superare, da sola, con me stessa. E' la mia sfida, il mio percorso di crescita.Per quanto aiuto possa arrivarci dall'esterno, ci sono risorse che solo noi possiamo decidere di mettere in atto, meccanismi che solo noi abbiamo il potere di sbloccare. Energie che ci appartengono, su cui abbiamo il controllo esclusivo. A noi la scelta se utilizzarle, oppure no. Nessuno viene al mondo con la responsabilità di rendere felice il prossimo, siamo responsabili solo di noi stessi, eppure spesso ce ne facciamo carico, soprattutto quando il prossimo incarna la persona con cui abbiamo scelto di passare il resto della nostra vita. Faccio un lavoro in cui saper mettere le distanze è fondamentale, oserei dire vitale. In cui il sano distacco è ciò che può fare la differenza tra la serenità e l'infelicità, tra un approccio utile, o una relazione dannosa, di mera assistenza.Lo stesso mi accade con questo blog: le vostre storie, il vostro vissuto, io me lo porto dentro. Ci sto dentro. Con l'aggravante che quasi sempre finisco con l'immedesimarmi...e se non cerco vie di fuga, se non prevedo parentesi di stacco, rischio di essere assorbita pericolosamente. Quando un blog vive di storie, trascende l'esperienza personale e si apre all'esterno, accogliendo le esperienze di molti, è un po' come non essere mai soli. Le parole, le emozioni, si mescolano e riecheggiano dentro anche per giorni. E' necessario perciò saper definire dei confini fra il dentro e il fuori, tra il mio e il tuo.Così anche nella vita, nelle relazioni umane.
Per questo mi sono sempre esercitata a non essere una spugna che assorbe e si gonfia di cose che non sono sue e le restituisce identiche a come le ha prese. E' necessario un processo di trasformazione e questo può avvenire solo se ci si distacca dalla realtà e la si osserva dall'esterno. Il coinvolgimento deve esserci, ma a tempo. Deve avere una sua durata, un inizio e una fine ben precise. Quando ci preoccupiamo per qualcuno ci illudiamo di agire e fare per il suo bene, in realtà non ci stiamo muovendo in nessuna direzione, tanto meno verso l'altro. Con molta probabilità faremo quel che riteniamo essere la cosa migliore per lui: cioè quello che farebbe bene a noi. Non saremo in grado di dare all'altro ciò di cui ha realmente bisogno, perché saremo troppo presi a preoccuparci per lui. E dare non è sinonimo di fare.Diversa cosa è occuparsi dell'altro, del suo dolore, del suo problema. Si pensa spesso e erroneamente che quando qualcuno ci apre il cuore e ci espone un problema, ciò di cui ha bisogno, ciò che ci sta chiedendo tra le righe, sia una soluzione: "fai qualcosa per me, risolvimi questo problema, te ne prego". Con il tempo ho imparato, a mie spese e sulla mia pelle, che in quei momenti ciò che ci manca, invece, è qualcuno che ci ascolti in profondità, che ci accolga, che ci faccia sentire capiti, che - dedicandoci tempo e attenzioni - non ci faccia sentire soli. Perché siamo consapevoli del fatto che le decisioni spetteranno a noi, solo noi abbiamo il reale potere di risolvere le cose, di cambiarle. Nessuno può farlo al posto nostro. Perciò spesso, mossi dalle migliori intenzioni, trascuriamo proprio l'essenziale: rimanere ad ascoltare. Non forzarci a trovare risposte, cosa dire o cosa fare, semplicemente esserci e ascoltare. Esserci col cuore e con la mente.Nell'atto stesso del pensare a cosa ribattere o a quale soluzione offrire, è implicita una distrazione: non sto più con l'altro, in relazione, ma sto cercando di salvare me stesso, di sentirmi a posto, utile.Questa è la cosa più difficile da fare, ma probabilmente la più utile: riflettere insieme, sviscerare, dare modo all'altro di avere un differente punto di vista con cui confrontarsi, solo questo gli permetterà di crescere, di trarre il meglio dallo scambio, di arrivare al punto nodale della questione, di comprendere e capire di cosa ha bisogno. Di raggiungere una maggiore consapevolezza. Questo per me è rispetto: responsabilizzare l'altro, metterlo nella condizione di accedere alla sua verità, con il conforto di non doverlo fare da solo. Se avrà paura, se piangerà, noi saremo lì a sostenerlo.E poi c'è l'umiltà. E' difficile ammettere che non sempre disponiamo degli strumenti necessari per aiutare l'altro, è difficile sostenere il senso di impotenza, restare semplicemente a guardare. Ci sembra un atto di cinismo, ci sembra di mancare di sensibilità.E qui entra in gioco la superbia. Credere di fare la differenza, di essere così determinanti da avere il potere di cambiare e risolvere il problema dell'altro, di essere indispensabili. Ma l'altro ha le sue belle risorse, ne è ricco, l'atto d'amore più grande è riconoscergliele, fargli sentire che ci fidiamo di lui, che crediamo nelle sue capacità, che lo riteniamo capace di superare anche questo ostacolo. Con noi al suo fianco certo, quando ne avrà bisogno. Non come un bastone che assiste nella camminata, ma come una confortevole poltrona in cui trovare quiete e riposo, quando sarà stanco per il troppo cercare e camminare. Da solo, con le sue gambe.Noi non possiamo fare il lavoro dell'altro. Nessuno può fare il nostro.
Perché vi dico tutto questo? Perché saper ascoltare, saper stare accanto a qualcuno che soffre è un'arte e come tale, a meno che non si sia già forniti di un certo talento naturale, necessita disciplina, controllo e allenamento. All'inizio l'istinto ci dice di fare, pian piano capiamo che è importante essere. Essere con l'altro, esserci per l'altro. Credere in lui, sapere che ce la farà, anche da solo, anche senza di noi. Noi possiamo essere un mezzo per entrare in contatto con se stesso, ma non ci sostituiremo mai a lui.
Mi è arrivata una mail ieri e non era come le altre. Mi ha smosso tutte queste riflessioni, mi ha toccata nell'intimo e da vicino perché non solo mi ha messo di fronte a quel che questo spazio - e io con lui - siamo diventati, ma anche ai miei limiti. Qual è il modo migliore per stare accanto a qualcuno che soffre? Di cosa ha bisogno? Cosa mi sta chiedendo? Sono domande che mi sono posta spesso, che continuo a pormi, confrontandomi quotidianamente con le vostre realtà e con la mia vita di coppia.E stavolta il mio è stato un atto di onestà: io non lo so. Queste parole mi si agitavano dentro: io non lo so. Io non lo vivo. E mi sono ricordata di quante volte molte di voi hanno cercato il punto di vista che mancava nelle mie parole: quello di una donna che sostiene il suo uomo. Perché la diagnosi pesa su di lui.Cosa posso fare io per lui? Come riuscire a non confondermi, a non perdermi? Perché il rischio, quando si ama, è davvero di perdere di vista noi stessi, di annullarci nell'altro e per l'altro, esaurendo così le nostre risorse e finendo con il non essere di aiuto alcuno.Io accolgo quel che viene, come un'opportunità, sempre.Questa mail è per voi l'occasione di ritrovarvi e riconoscervi, mentre per me di imparare, crescere, scoprire qualcosa di nuovo. Io non so cosa si prova ad essere dall'altra parte, quando il diversamente fertile è lui.Perciò faccio quello che credo essere l'approccio più sano e utile: creo il terreno e lo spazio per la condivisione, ascolto e offro la mia disponibilità ad esserci, a smezzare il peso. Ma accolgo anche i miei limiti e lascio la parola a voi, VOI che lo vivete ogni giorno sulla vostra pelle, come lei... o a VOI, che vorrete esserci per riflettere insieme, comunque, anche se - come me - non lo vivete in prima persona.
SENZA OGGETTO
Finalmente la stanza dello studio è vuota, o meglio ci sono solo io, la collega è fuori.
Questo silenzio mi aiuta a scrivere veloce, di getto, senza filtri. Ti scrivo perché ho bisogno di capire.
Di capire come stare accanto a mio marito ed ai suoi soldatini stanchi, e deformi.
Brutte parole queste, ma sono le uniche che mi vengono in mente per tradurre quanto ho letto negli esiti dello spermiogramma. Ero sola e ... il mondo si è accartocciato su di me, ed il giorno dopo su di lui, infine su di noi.
Ci rialziamo, ma il peggio deve ancora arrivare perche il mese successivo lui entra in depressione.
Gli tendo la mano, devo essere io la più forte ora, e lo tiro su con la forza: gridandogli che non intendo rinunciare al nostro amore per una fissazione. Sì lo è diventata: anche,o forse soprattutto, grazie agli altri.
Ora per lui apparentemente è passata, ma so che così non è: è forte e non mostra mai quanto soffre.
E io? Be mi trovo in una veste che non ho mai occupato: quella della moglie forte!! Sta facendo la cura ormonale dei tre mesi..ma come stargli accanto? Cosa rispondere quando mi pongono la fatidica domanda? Magari proprio davanti ai suoi occhioni azzurro cielo? Pazzesco! Sono quasi avvocato e non so difendere mio marito.
Cristo, ma perché a Lui, perché il problema non l'hanno riscontrato su di me ?
Non c'è risposta, e non la troverò, del resto non mi aiuterebbe.
Ora vado, provo a vedere se nel codice civile trovo qualche aiuto...
Martina