La vittoria del premio Viareggio-Rèpaci da parte del romanzo Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, significa a mio parere soprattutto due cose.
La prima è che in Italia i premi hanno ancora una loro dignità, un ruolo culturale e una ragione d’essere non direttamente legati agli interessi e alle vendite dei grandi gruppi editoriali (il che non è poco, considerando il livello a cui sono scesi negli ultimi anni il Campiello e lo Strega).
Il secondo è che finalmente torniamo a parlare di noi, e lo facciamo investigandoci, interrogandoci, non risparmiandoci, calandoci nelle viscere di quegli anni, gli ottanta, che se un ruolo l’hanno avuto nell’attuale e generalizzato scatafascio del Paese è stato quello di averne costituito il tragico incipit.
Capiamoci, l’incipit di ogni uomo è nella generazione che l’ha preceduto, è vero, come quello di tale generazione sta nella generazione prima. Ma qualcosa di intangibile e gigantesco è avvenuto negli anni ottanta. Si è realizzato un salto, un volo sproporzionato che ha lasciato chi veniva dopo in pieno cielo, senza più carburante, né mappe, né direzioni.
Un romanzo che oggi vada a investigare le tensioni di quel decennio, e che lo sappia fare sul doppio binario generazionale padri/figli, come nel caso dell’opera di Lagioia, è ciò che di meglio potevamo augurarci in questi tempi di squilibri e stagnazione.
È una faccenda che mi sta molto a cuore, lo ammetto, come già ho avuto modo di dire in riferimento alle radici e ai figli. Soprattutto alla luce degli ultimi tempi.
Se infatti la generazione descritta da Lagioia, (quella dei trentenni e dei quarantenni di oggi) è cresciuta tra le quinte sgargianti ma precarie di un palcoscenico che altri erano intenti ad approntare per loro, quelle successive, e in particolare l’attuale, sembrano correre il rischio di volerne rimettere insieme le rovine.
L’italico immobilismo degli ultimi anni è innanzitutto culturale prima ancora che economico, e affonda gran parte delle proprie radici nel vuoto del decennio in cui Lagioia ha avuto la forza di ambientare il suo romanzo.
L’Italia ha (notizia recente, non nuova) un sistema scolastico anacronistico dal quale gli studenti stranieri si tengono bene alla larga (preferiscono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Spagna, l’Olanda), un corpo insegnanti sottopagato e poco stimolato, e investimenti pubblici ai minimi tra i paesi industrializzati (a detta dell’ Ocse solo la Repubblica Slovacca investe meno nell’istruzione). Considerando che è dalla scuola che usciranno le generazioni del domani, e che dovranno essere loro a portare avanti il Paese, è chiaro che abbiamo rinunciato ancora una volta a investire nel nostro futuro.
Non bastava essere il Paese più passivamente medializzato dell’occidente. Pare che tutti si preoccupino di risolvere la famosa crisi economica partendo dall’economia, ignorando così il semplice precetto che un sistema economico entra in crisi quando è il sistema culturale che l’ha generato a entrare in crisi, non viceversa. E che occorre un enorme sforzo di rinnovamento socio-culturale, appunto, per uscirne fuori.
Un primo passo in questo senso mi pare sia l’opera di Lagioia.
Romanzo definito – giustamente, a mio parere – non di formazione ma d’iniziazione e di corruzione (io direi “iniziazione nella corruzione”) e in cui il percorso verso l’età adulta diviene scelta forzata tra l’essere sconfitti e l’essere carnefici (con personaggi che in più parti sembrano riassumere in sé entrambe le posizioni) Riportando tutto a casa fa quello che per molto tempo nessuno ha voluto fare (e che la letteratura sempre dovrebbe) ovvero affonda lo sguardo nella melma indistinta del reale per rintracciarne i percorsi.
Lagioia scava con le parole nel decennio che l’ha e ci ha segnato, e lo fa scavando innanzitutto in se stesso e nella sua scrittura, donandoci come risultato un’opera in cui certi eccessi concettuali dei lavori precedenti (‘cerebrali’ hanno detto alcuni) sembrano trovare felicemente la via dell’emotività. Divengono così prosa partecipata, onda lunga e avvolgente, storia accalorata e insieme analitica, che sa creare empatia senza rinunciare alla distanza critica.
La storia – quella di tre ragazzini (uno in particolare, la voce narrante), delle loro famglie e dei loro amori – prende luogo in una Bari di metà anni ottanta, dove lusso e miseria sono interfacce di un medesimo mondo, ed anzi l’uno, il lusso, diviene paradossalmente matrice e metafora dell’altra, la miseria. Certe dinamiche possono non essere state notate da parte della società del tempo, ma che fossero in atto, su questo non ci sono dubbi.
Non si spiegherebbero altrimenti gli scenari attuali.
Ecco. Nel generale vuoto di idee, di creatività e di coraggio della società italiana, nell’assenza non tanto di prospettive, quanto di basi, di fondamenta, nell’incapacità di ritrovare radici, di ripercorrerle, di ricominciare a nutrirle e di rinnovarle, mi pare che Riportando tutto a casa sia un primo passo miracoloso e superbo, e troppo a lungo aspettato, per planare finalmente nel deserto sottostante, e, ovunque ci si trovi al momento, dimenticarci di voli, di carburante e di mappe.
E ricominciare a camminare.
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