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Cosa spinge una madre ad uccidere il proprio figlio? Il caso di Loris Andrea Stival

Da Mariagraziapsi

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Impensabile. E’ questo l’unico aggettivo che risuona nella mente dell’opinione pubblica quando i media divulgano notizie di infanticidi o figlicidi. Ma che un delitto sia impensabile non significa che sia stato compiuto necessariamente da una mente malata.

Una madre che uccide un figlio compie un atto contronatura”. La gente comune spesso pronuncia frasi del genere di fronte a delitti tanto inaccettabili; crimini, presumibilmente, come quello dell’omicidio di Loris Andrea Stival, il piccolo di appena 8 anni trovato senza vita in un canalone alla periferia del suo paese, Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa. Il giornalismo a stampa, tv e web è ormai concentrato da settimane su questo caso e proprio nelle ultime ore ha divulgato la notizia dell’arresto e del suo trasferimento nel carcere di Catania della madre di Loris, Veronica Panarello, con l’accusa di omicidio aggravato e occultamento di cadavere poiché sembra che le versioni fornite dalla donna siano in contrasto con le videoregistrazioni delle telecamere presenti nel paese, con i tabulati telefonici e con i tempi dei suoi spostamenti quella mattina del 29 novembre. Ovviamente qui, riportiamo quanto si sta divulgando in questi giorni e quanto si sa allo stato attuale circa la vicenda senza voler usare toni accusatori o dare per certa una colpevolezza che ancora è tutta da provare e a cui gli inquirenti stanno ancora lavorando.

Più che le indagini giudiziarie, a noi interessa però conoscere quali sono le ragioni che spingono una madre, colei che dovrebbe accudire e proteggere la propria prole, ad ucciderla. Premettiamo, comunque, che dall’autopsia sul corpo del bambino sembra essere venuta fuori, anche se al momento deve essere del tutto confermata, una storia di abusi cronici che in qualche modo ha diretto l’attenzione degli inquirenti sull’ambiente familiare.

Innanzitutto bisogna sfatare il mito secondo cui chi uccide, chi compie omicidi particolarmente violenti ed efferati sia in tutti i casi “malato di mente”, abbia alterazioni psichiatriche o disturbi psicopatologici. Le statistiche dimostrano che, invece, coloro che compiono delitti particolarmente cruenti sono nella maggior parte dei casi assolutamente sani di mente.

Un malato psichico grave, uno psicotico, generalmente compie delitti d’impeto, magari durante una fase acuta di deliri ed allucinazioni; è il soggetto sano di mente che è in grado di premeditare, programmare con freddezza e calcolo. E’ questo quanto accaduto al piccolo Loris. E’ stato strangolato con delle fascette da elettricista, i cui segni sono stati trovati anche sui polsi del bambino, come se qualcuno volesse tenerlo fermo per evitare che durante la stretta mortale potesse divincolarsi. Un omicidio quindi che definire d’impeto è assolutamente errato, alla luce di quanto dichiarato pubblicamente dagli inquirenti, tanto più se si pensa che con fascette simili sua madre tempo prima aveva tentato il suicidio, poiché, da quanto è stato divulgato, affetta da disturbi depressivi già da anni. Una sorta di simbolismo? Un ritorno a quel “gesto di morte” allora sfumato?

Il disturbo depressivo, al contrario di quanto spesso si dice, non porta con sé solo sentimenti suicidari; in molti casi una donna depressa trascina nella sua spirale di morte anche i familiari, realizzando il tipico omicidio – suicidio. Esempi del genere sono le uccisioni delle 3 sorelline albanesi, avvenute la primavera scorsa in Lombardia, da parte della madre che poi si è tolta la vita; l’omicidio del bambino di 11 anni a Rovito, in provincia di Cosenza, sempre da parte della madre, che poi ha tentato il suicidio con le stesse forbici con cui ha tolto la vita al figlio.

Il caso del piccolo Loris è interessante anche per la questione degli abusi cronici, ossia abusi che venivano consumati da tempo. Un bambino di appena 8 anni nella maggior parte dei casi subisce abusi nell’ambiente in cui vive. Quando si tratta di bambini, soprattutto che non parlano e non denunciano, il crimine viene il più delle volte consumato in famiglia. Durante l’infanzia, infatti, se un piccolo viene abusato da un estraneo, tende a parlarne, a far capire che c’è qualcuno che gli fa del male; quando ad abusare sono i familiari, invece, egli tende al silenzio, a non confessare nulla come in una sorta di autocolpevolizzazione per qualcosa di sbagliato che magari ha commesso. Nella mente del bambino abusato da un familiare si innescano pensieri del tipo “se mi accade ciò, è perché ho fatto qualcosa di sbagliato; sono colpevole di aver commesso qualche errore”. E con il tempo gli abusi sui bambini, soprattutto quando sono di natura sessuale, hanno effetti devastanti sul loro sviluppo di personalità. Da molte storie di pedofili viene fuori infatti che, a loro volta, da bambini sono stati vittime di abusi. Avviene una sorta di identificazione della figura della vittima in quella del carnefice e non sono mai identificazioni sane.

Si è più volte parlato in questi giorni, inoltre, del precario rapporto di Veronica con sua madre che, addirittura, le avrebbe confessato di non averla mai voluta. In casi come questi, sentimenti di abbandono e rifiuto da parte di una madre potrebbero far scattare nella mente di una donna un attaccamento di tipo simbiotico con il proprio figlio che potrebbe manifestarsi proprio con l’atto sessuale, simbolo di unione totale tra due corpi. Nel caso in questione, poi, c’è da dire che questa donna ha avuto il proprio figlio in un periodo delicato come l’adolescenza in cui tutte le ragazze maturano il passaggio dall’essere bambine all’essere donne; se a questo, si sovrappone anche il passaggio all’essere madre e non si è adeguatamente sostenuti dalla propria famiglia e dai propri cari si può andare incontro a gravi alterazioni di tipo psichico, che possono sfociare in depressione post partum e, a volte, anche in stati deliranti.

Una madre mentalmente sana può uccidere il figlio a seguito di ripetuti maltrattamenti; oppure perché non si sente adeguata al ruolo di madre; o, ancora, perché identifica il figlio con storie di abbandono, violenza sessuale o precarie condizioni esistenziali. In tutti questi casi non si può parlare di donne mentalmente malate.

Dinamiche particolari, invece, emergono quando facciamo riferimento a veri e propri disturbi psicopatologici, quali possono essere, ad esempio, la “Sindrome di Medea”, in cui la madre uccide il figlio spostando su di lui, considerato come il frutto dell’unione con il marito, la rabbia che prova nei confronti del coniuge; la “Sindrome di Munchhausen”, in cui la madre ripetutamente provoca sintomi nel figlio, costretto a continue ospedalizzazioni, esami e analisi, che possono danneggiarlo o addirittura ucciderlo; la “Sindrome di attaccamento/separazione”, perversione che porta la madre ad uccidere il figlio perché non regge le dinamiche di separazione del suo corpo dal proprio dopo l’attaccamento che avviene per tutto il periodo della gravidanza; e altre gravi patologie psichiatriche manifeste.

Ulteriori cause scatenanti di reazioni particolarmente cruente possono essere le reazioni psicogene da stress, ossia reazioni che si manifestano in soggetti non necessariamente affette da un qualche disturbo mentale e che sono provocate da situazioni che comportano forte turbamento, una forte capacità di psicotraumatizzazione che ha potuto portare ad una temporanea alterazione dello stato di coscienza. La donna potrebbe raccontare con convinzione versioni diverse da quanto provate, invece, dagli inquirenti, perché potrebbe effettivamente aver “cancellato” il fatto traumatico. L’alterazione dello stato di coscienza porta infatti un soggetto a rimuovere dal livello cosciente tutto ciò che fa riferimento alla situazione traumatica e delittuosa. Saranno, a questo punto delle indagini, le perizie di Psichiatri, Psicologi e Psicodiagnosti a far luce sulla personalità della donna e aggiungere ulteriori tasselli per arrivare alla conclusione di questa triste vicenda.

Maria Esposito

Bibliografia

Balloni A., Criminologia e Psicopatologia, Pàtron, 2007.

Ponti G., Merzagora Betsos I., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, 2008.



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