Cosa vuol dire essere un giornalista cristiano?

Creato il 15 marzo 2014 da Alessandro Zorco @alessandrozorco

“Cosa vuol dire per te essere un giornalista cristiano?”. Con questa domanda apparentemente innocua, abbastanza inusuale per chi è abituato a fare le domande e non a rispondere, qualche giorno fa un collega mi ha messo di fronte improvvisamente alla mia coscienza. Era come se mi avesse brutalmente chiesto: stai mettendo i valori in cui credi al servizio della tua professione oppure li stai sacrificando, li stai calpestando per perseguire un tuo obiettivo personale? Più prosaicamente, sei di quelli duri e puri oppure sei di quelli che si vendono al migliore offerente aderendo alla filosofia del “tengo famiglia”? E, se anche pensi di appartenere alla categoria dei duri e puri, lo fai per convinzione oppure perché nessuno ti cerca e ti fa comodo pensarti così?

In soldoni, la vera domanda cui rispondere era: pensi di essere una persona coerente?

Dopo qualche riflessione ho provato a buttar giù una risposta che non so quanto sia riuscita a convincerlo. E soprattutto a convincermi.

La via stretta del giornalista cristiano

La verità è che essere un giornalista cristiano non è per nulla facile.

Quella del giornalista è sicuramente una posizione privilegiata per guardare il mondo e farsene un’opinione realistica. Ma un giornalista cristiano – per essere credibile – ha per definizione il dovere di mettere Cristo esattamente al centro della sua professione. Deve essere un militante, un combattente. Un soldato. Non può essere uno di quelli bellini e ben vestiti, giacca e cravatta tirata, buoni per ogni occasione. Quelli che cambiano faccia, bandiera e opinioni a seconda di chi li assume. Il che non è esattamente la cosa più semplice da farsi, soprattutto oggi. E in questo mercato del lavoro che obiettivamente offre pochissime opportunità.

Il problema è che quell’incontro inaspettato – arrivato improvvisamente a sconvolgere la tua vita più o meno tranquilla e incosciente – non ti permette di rimanere ancorato alle tue vecchie abitudini. E anche se lo rifiuti, se ti arrabbi e lo rinneghi cento volte, anche se ti ribelli in tutti i modi, alla fine ti cambia dentro. E ogni volta che non fai quello che in cuor tuo credi sia giusto, se scegli la cosa sbagliata, dentro di te c’è un noiosissimo tarlo che te lo ricorda e ti fa vivere male. Alla fine ti devi arrendere a quell’esempio scomodissimo di chi ha dato la sua vita per salvare chi lo aveva sputato, deriso e, alla fine, messo in croce. E devi per lo meno cercare di andare in quella direzione “ostinata e contraria”. Cosa anche questa non sempre molto facile.

Personalmente ho sempre cercato di lavorare onestamente e con coscienza durante la mia esperienza di cronista, dalla lunga gavetta come collaboratore dell’Unione Sarda alla importante esperienza da redattore al Giornale di Sardegna –Epolis, fino al mio attuale lavoro di addetto stampa.

Il mio lavoro mi ha permesso di conoscere i meccanismi, a volte perversi, della politica, delle istituzioni e di un’economia ingiusta che se ne frega dei cittadini preferendo tutelare soprattutto i potenti e spesso anche i delinquenti. Ma mi ha fatto conoscere anche il volto senza nome di tante persone, di ogni tipo e credo, che si impegnano nel silenzio per costruire una società migliore.

Poi quell’incontro di cui sopra, per lungo tempo rifiutato, ha lentamente lavorato dentro di me. Fino a farmi capire che ormai non basta più lavorare con coscienza e svolgere bene il compitino. Quell’esempio scomodo ti impone di fare delle scelte di campo. Anche molto difficili. Ti impone di decidere da che parte stare, di metterti l’elmetto e andare al fronte.

Proprio da questa consapevolezza è nata l’esigenza di avere uno spazio in cui scrivere e condividere idee e opinioni. Ed è nata la decisione di accettare un incarico dirigenziale nell’Unione cattolica Stampa Italiana, che lo scorso anno mi ha dato l’opportunità di avere una importante occasione di formazione professionale.

Oltre ad essere un’arma insostituibile per affrontare i momenti difficili, come a me e a tanti altri colleghi è successo durante la cassa integrazione seguita al vergognoso fallimento di Epolis, la fede si può rivelare un efficace strumento di lavoro.

La società oggi cerca spesso di mistificare la realtà mascherando la merda sotto una accattivante glassa di buonismo. E allora se c’è una cosa, difficilissima, che un giornalista cristiano dovrebbe fare è cercare sempre la verità delle cose, guardarne l’essenza, vedere al di là della glassa delle apparenze e denunciare la corruzione, le menzogne e l’egoismo, anche quando sono abilmente camuffati da diritti civili e libertà.

Contrariamente a quanto sostengono in molti (spesso in malafede), un giornalista sociale, così secondo me deve essere un giornalista cristiano, non deve solo informare ma anche formare. Deve far discutere e riflettere.

Allora, tornando alla domanda iniziale, cosa vuol dire essere un giornalista cristiano?

Probabilmente significa avere la forza di essere soli e di andare controcorrente. E sentire il peso di una enorme responsabilità, soprattutto nei confronti dei ragazzi che hanno diritto a vedersi consegnata da noi adulti una società più pulita e meno corrotta. In caso contrario, se questo coraggio e questo senso di responsabilità mancano, meglio evitare di utilizzare questa definizione e limitarsi a quella di giornalista. Che è già di per sé abbastanza impegnativa e autoreferenziale.

Lo dichiaro subito: non leggo gli oroscopi, siamo soli nell’Universo, non mi evolverò in una farfalla o in un Santo. Per credere ho bisogno di prove. Non ho avuto grande potere o grande denaro. Non presento cicatrici eroiche, non posso raccontare seduzioni epiche o idee che abbiano prodotto trasformazioni. Però qualche volta ho avuto coraggio. Quello vero. Non il coraggio del nostro tempo, quando chi affronta a nervi saldi un’ispezione dell’Iva è un guerriero e chi centra un budget di miliardi è un eroe. Ho vissuto eposodi e incontrato persone che ho ritenuto normali. Ma che normali non erano. Lo so adesso. Erano indicazioni, modelli. Erano valori. Quegli incontri forse non furono casuali e, da qualche parte, qualcuno se ne accorgeva. La storia che sto per raccontare potrebbe risultare incredibile. Lo è persino per me che l’ho vissuta. Mi chiamo Alessandro Forte. E sono un pubblicitario…
(dal film “7 km da Gerusalemme” di Claudio Malaponti)

Cliccando su uno dei seguenti pulsanti sociali è possibile guardare la versione completa del film.