Titolo: Così in terra
Autore: Davide Enia
Editore: Dalai
Anno: 2012
Con il suo primo romanzo, giunto a ridosso della cinquina che si è contesa il premio Strega 2012 e finalista del premio Bancarella 2012, Davide Enia dimostra che nelle sue vene scorre sangue siciliano verace, quello che animò anche Verga e Pirandello. “Così in terra” è una rappresentazione che combina verismo - in una reinterpretazione dei giorni nostri e con uno stile arricchito dal palermitano, “un dialetto bello e profondo, capace di velocità e forza” - e senso drammatico del teatro, dosando le due ispirazioni con il gusto crudo per il colore.
La storia narra la saga di tre generazioni in una mescolanza di dimensioni temporali, grazie alle quali l’autore intercala i fatti della guerra d’Africa vissuti dal nonno, i decenni del dopo guerra e i fatti di mafia più recenti (“Nella strada dietro la piazza, grida, ambulanze e sirene della polizia. La colonna sonora di Palermo”).
L’atmosfera che si respira è quella di una guerra perenne, anche perché i protagonisti (Davidù detto “Il poeta”, suo padre “Il paladino”, tragicamente e prematuramente morto in un incidente stradale, e lo straripante zio Umbertino) praticano la boxe con il sogno – infrantosi per il padre e per lo zio – di diventare campioni nazionali. Sebbene Davidù bambino dichiari agli altri coetanei: “Mica sono come voi che volete fare il lavoro dei vostri padri, io posso fare quello che voglio, io sono più fortunato di voi, io sono orfano.”
Il romanzo, dicevo, è pervaso da crudezza e crudeltà: nei rapporti personali (non solo tra gli adulti, ma anche tra i bambini pronti a infierire sul più debole, quel Gerruso al quale viene chiesto un terribile rito sacrificale), nella rappresentazione del rapporto tra i due sessi secondo gli stilemi propri del maschilismo più bieco, nel simbolismo mafioso (“Se l’ammazzato ha i coglioni in bocca è perché ha fatto danno con la femmina sbagliata; i piedi nel blocco di cemento e poi giù in mare è la sorte per chi s’ammucca i piccioli della famiglia; il morto con il pesce in bocca è uno che parlava assai.” Sino alla “squagliatina nell’acido”).
E questa essenza umana, ferina e primordiale, invade le pagine senza soluzione di continuità rispetto al mondo animale (“Il primo maiale, il padre di Nicola glielo fece sgozzare a sette anni … Con le galline la regola è semplice: una mano tiene fermo il corpo, l’altra gira il collo.”), che ispira metafore cruente (“gli attimi che precedono la mattanza, quando la fiocina è ancora salda nelle mani …”) . E si unifica ai fatti estremi vissuti dai soldati in terra d’Africa e interpretati dal nonno.
Eppure, nella Palermo assediata dall’emergenza criminale (“Mi mancava un solo incontro per il titolo nazionale, uno soltanto, quando a Palermo, dopo cinquant’anni, tornarono le bombe”), ove occorre “cambiare strada per un’intuizione improvvisa, diffidare delle facce estranee, provare ansia quando sotto casa si trovava parcheggiata un’automobile mai veduta prima”, sbocciano alcuni fiori.
Come lo sport. Così “il pugilato serve a mantenere un equilibrio costante … è una disciplina che insegna il rispetto e il sacrificio”
E le amputazioni e le violenze narrate permettono e promettono un contrasto: perché “le ferite della carne, ago e filo e non sanguinano più. I tagli dell’anima, invece, sono fontane di sangue.”
In questa prospettiva, la parte finale del romanzo si mantiene drammaticamente incalzante: lì si susseguono i punti di vista e le angolazioni narrative convergono tutte su Davidù, che lotta per il titolo nazionale e per conquistare il suo sogno d’amore. A questo punto per il lettore non è più soltanto un dettaglio scoprire se “il poeta” riuscirà a laurearsi campione, visto che “le finali nazionali erano tabù per la mia famiglia.”
Nel punto di accumulazione dell’adrenalina e della tensione, mi sono ritrovato sotto il ring e ho sentito una scarica di pugni, alcuni dritti dritti allo stomaco. Immedesimandomi nella faziosità di Gerruso. “Così in terra”, così è stato per …
… Bruno Elpis