L’elemento fisico che si intreccia con quello psicologico. Importanti tematiche sociali sollevate da intime e a volte inquietanti autoanalisi. L’uomo come punto cardine dell’universo. Con i suoi morbi, i suoi tic. La poetica sconvolgente di uno dei geni del “body horror”, c’è. Si percepisce fin dai titoli di testa che di lì a poco avremmo assistito ad uno spettacolo travolgente e surreale. Forte, l’impatto visivo è quello che la nostra memoria rimanda a capolavori in linea con lo stile del regista canadese. Come l’horror fantascientifico del 1986, La Mosca (The fly). Le patologie che portano l’essere umano all’autodistruzione e a una visione distorta della realtà. Oppure Crash (1996), in cui un incidente d’auto è visto come “evento fertilizzante più che distruttivo”.
Eppure qualcosa in questo grottesco e visionario quadro “croneberghiano”, e mi duole ammetterlo, non va. Sarà che stavolta c’era in ballo una trasposizione letteraria davvero complessa. Il romanzo di Don DeLillo è quasi una visione profetica sulle sorti del mondo. Una visione tragica e infernale che vede l’umanità scivolare, senza via di scampo, nella catastrofe. Un romanzo che sembra tutt’oggi sorprendentemente al passo con i nostri tempi, nonostante sia passato un decennio dalla sua pubblicazione. Quel che stupisce e a maggior ragione ci porta a riconoscere merito al regista, è un adattamento dalle premesse impossibili. Tra le pagine del libro spiccano ricchi dialoghi impregnati di spunti filosofici ed esistenziali, che rimandano, ed era inevitabile, alla dialettica “marxista”. Le prime parole del manifesto comunista recitavano “Uno spettro si aggira per l’Europa”, nel film di Cronenberg lo spettro invece si aggira per “il mondo”. E spunta un argomento mai affrontato prima dal regista, ovvero il denaro. Il potere che questo ha sugli uomini e come influenzi il mondo intero. Il Capitalismo che si espande a livelli incontrollabili, tanto da spingere gli individui a sentirsi alieni della società, solo perché rimasti “persone”. Significativo il finale del film. 20’ di dialoghi tra Eric Packer e Benno Levin. Una sequenza che sembra essere messa lì per tappare i buchi. Troppi. E non è bastata la maestria di un Paul Giamatti che pare un pesce fuor d’acqua. Costretto a fare da spalla a un “inspiegabile” Pattinson.
Lo stesso Cronenberg ha ammesso che portare sullo schermo i dialoghi di DeLillo non sarebbe stato affatto semplice. Lo si avverte anche senza aver letto il libro. Lo spettatore è infatti catapultato in un vortice troppo confuso di dialoghi sparsi qua e là. Sembra che siano stati messi a casaccio senza un reale o giustificato filo conduttore. Ma parliamo di Cronenberg. Uno che in passato ha avuto a che fare con romanzi complessi, ricordiamo Il pasto nudo (Nacked Lunch) nel 1991, tratto dall’omonimo romanzo di William R. Burroughs. Il già citato Crash, di J.G.Ballard. Solo per citarne alcuni.
Le perplessità di fronte a questo Cosmopolis rimangono. Ci si chiede se davvero stavolta Cronenberg abbia fatto bene o meno ad imbattersi in questa impresa. E al di là della fotografia, affidata all’ormai inseparabile Peter Suschitzky e di una colonna sonora mai deludente realizzata dal maestro Howard Shore; ecco, al di là di questo, ci si chiede perché Cronenberg abbia voluto stordire il suo pubblico non più servendosi dei suoi inconfondibili escamotage cinematografici, bensì riservandogli senza preavviso, quell’insensato e indigesto ” vampiro”…