Può fondarsi sulla più bella carta del mondo, ma la democrazia è fatta di partiti, governanti, rappresentanti, elettori, è fatta di uomini, diritti, doveri, idee, passioni. Una costituzione, sana e robusta, non basta nemmeno quando stabilisce il diritto alla felicità se poi lo Stato non è altrettanto in buona salute, se il suo edificio di leggi è vuoto di ubbidienza rispetto, se muove guerre e commina pene di morte, se pratica disuguaglianze, se dimentica i suoi delitti quanto trascura l garanzie e le tutele.
La crisi, le politiche di rigore imposte come l’olio di ricino somministrato per punizione a un intero popolo, lo smantellamento dello stato sociale, l’attacco mosso ai diritti del lavoro, la guerra scatenata contro i ceti più deboli ora stesa anche ai ceti medi, hanno portato in luce le are critiche della democrazia, quegli interstizi nei quali serpeggiano le tentazioni autoritarie, si insinuano i veleni di una ideologia che vuole annullare la sovranità di stati e popoli, si infiltrano poteri criminali, sia pure in doppiopetto. Tra i modi prediletti per affermare l’egemonia di questi poteri antidemocratici c’è quello di alternare in modo intermittente l’attribuzione di priorità ai temi cruciali. Si spezzavano le reni alla Grecia, si sottoponeva a test feroci Cipro per sperimentare quello che ci verrà inflitto e intanto ci distraevano amabilmente con una campagna elettorale prolungata giocata sulla scommessa di lasciare tutto come era, grazie a una legge elettorale sapientemente studiata e mantenuta per congelare indefinitamente una classe politica e chi entra a farne parte nella nicchia invulnerabile dei privilegi, delle rendite di posizione, della separatezza, che vige anche in tempi di streaming.
Si dava per morto l’avversario politico, dichiarando secondario o “accessorio” demolire l’impalcatura del conflitto d’interesse, come se il ceto al governo o gli aspiranti tali non ne fossero affetti come da un morbo epidemico. Anche le cosiddette riforme, previdenziale e del lavoro, erano secondarie rispetto all’assoluta precedenza da attribuire al riscatto della credibilità da riconquistare presso la comunità internazionale, quella dei mercati e della finanza, interessati non alla nostra affidabilità, ma anzi alla nostra debolezza in svendita come i nostri diritti. Poi ci rimetteremo le mani, dicevano tutti, compresi quelli che le avevano proposte. Lasciando intendere che poi, dopo altre urgenze, si sarebbe rimaneggiato anche il fiscal compact, imposto coattamente e subdolamente, anche il pareggio di bilancio.
E anche la Costituzione, sottoposta a un metti e leva, inserisci e togli, che si sa che è di fibra elastica, la si ricordava solo quando serve e la si rispetta solo in occasioni a alto contenuto commemorativo, presto cancellate dal calendario per motivi di dinamica efficienza o per la rivendicata ritrosia all’antifascismo e ad altre arcaiche ideologie.
Oggi questa tremenda debolezza della democrazia che coincide con l’eclissi della politica, si manifestano con una tremenda crudezza, quella di un governo del presidente in clima di usurpazione, quella di una tentazione accentratrice e autoritaria che suona ancora più stonata laddove partiti tentennanti o movimenti neo giacobini si propongono come macchine onnivore, che vorrebbero reclutare, spesso per fregiarsene in modo estetico o ornamentale, ciò che di virtuoso nasce in quella che chiamano società civile, per annetterlo fino a degradarlo, in modo che la “politica” resti un loro possesso e monopolio indiscusso, nel crepuscolo dello Stato e nella riduzione del “pubblico”, del “comune”, del “popolare”.
Pare sia una legge naturale secondo cui i regimi politici con il passare del tempo (qualcuno ha detto nel giro di una cinquantina di anni) tendono a chiudersi su se stessi, a diventare oligarchie, gruppi chiusi di potere, degenerazione della democrazia, dove la distanza tra elettori ed eletti appare incolmabile. Al di là degli annunci, dietro ai gesti simbolici, oltre a una prevalenza della comunicazione sull’azione, magari in attesa di un “periodo giacobino” come quando si era imposto agli elettori di votare in pubblico – il massimo della libertà democratica o il massimo del controllo dell’esercizio della libertà – proprio oggi si consuma l’apoteosi di un anno di progressivo svuotamento della democrazia, tale che perfino il letargico Bersani ne sembra scosso e tira fuori una tempra tardiva, impaurito dal protrarsi o il replicarsi di un esperimento che ha già dato tutti i suoi frutti avvelenati.
Qualcuno ha detto che collocati a un livello minore, i problemi non hanno risposta. Non bastano le coalizioni, non bastano le soluzioni tecniche, per una malattia così grave serve l’utopia, quella chiamata democrazia.