L’emancipazione della donna porterà gli uomini all’estinzione?
Internazionale si occupa di questo tema pubblicando un articolo di Hanna Rosin intitolato La fine del maschio. In copertina le gambe di una gigantesca donna in tailleur sono di fronte a un piccolo omino che sventola bandiera bianca. La tesi della Rosin è semplice: l’era del predominio maschile sta finendo perché le donne sono più brillanti, più determinate e, in definitiva, più adatte alla società postindustriale. I muscoli oramai contano meno dell’intelligenza. Mentre le ragazze sudano sui libri e competono fin dalla tenera età, i ragazzi giocano alla play station. I tradizionali vantaggi maschili stanno finendo proprio nel momentoin cui le donne stanno acquisendo la consapevolezza di poter fare da sé. L’era dell’uomo che porta a casa il reddito familiare e della donna che si limita alle mura domestiche è finita.
E ci si può saziare di statistiche, numeri e casi: tre quarti degli statunitensi preferiscono figlie di sesso femminile; negli Stati Uniti 3 laureati su 5 sono donne; la crisi ha colpito maggiormente settori tradizionalmente maschili (edilizia, finanza, manifatturiero) mentre settori ad occupazione prevalentemente femminile stanno reggendo il colpo. Il sorpasso è storico: oggi negli Stati Uniti la disoccupazione sta colpendo più gli uomini che le donne. Ma davvero l’economia postindustriale, la crisi economica e l’emancipazione femminile stanno creando l’alchimia miracolosa che il femminismo ha sempre sognato?
Io credo di no. Criticando l’articolo della Rosin, Katha Pollitt ha trovato il punto: la dialettica tra i generi non è un gioco a somma zero. Credere che i diritti degli uomini e quelli delle donne siano inversamente proporzionali è una visione innanzitutto deprimente. Davvero l’uomo è tanto più felice quanto più la donna è assoggettata e dipendente da lui?
Senz’altro si ha la sensazione di essere sulla soglia di un cambiamento storico. Forse ci metteremo secoli, ma il percorso di liberazione è iniziato. Oggi non ci vergogniamo di ambire ad una carriera indipendente da quella del nostro compagno e, a dirla tutta, non ci vergogniamo nemmeno di non avere un compagno. Non siamo reiette della società se non scegliamo il matrimonio e non siamo puttane se abbiamo figli in unioni non consacrate dalla chiesa.
Contemporaneamente, ci sono ancora tante conquiste davanti a noi: la responsabilità della cura dei figli e degli anziani ricade ancora prevalentemente sulle donne, abbiamo bisogno di una laurea per guadagnare quanto un uomo con un diploma superiore e, finora, la politica non ha elaborato meccanismi per cui le donne non si ritrovino a dover offrire agli uomini il salato conto della gravidanza e delle conseguenti rinunce lavorative. Per non parlare dell’aborto, delle violenze in famiglia, dei pregiudizi, delle conseguenza psicologiche e sociali dell’utilizzo commerciale del corpo femminile.
Forse è vero che noi donne abbiamo qualche caratteristica che ci avvantaggia nell’economia attuale. L’abilità comunicativa, l’empatia, la costanza… ma non sono ragionamenti sospetti? In fondo sono i vecchi stereotipi di genere che venivano usati contro di noi e che ora sono integrati in una retorica apparentemente a nostro vantaggio. Evviva le donne carine, evviva le donne cortesi, evviva la soft leadership! Sono l’unica a sentire puzza di bruciato?
Non serve essere teorici del complotto per accorgersi che le vittorie delle donne vengano messe al servizio di una retorica che protegge lo status quo. In Italia, almeno: ragionare sulle conquiste femminili è una giustificazione allo stringere i ranghi e ad intensificare la guerra. Il riconoscimento delle conquiste femminili diventa apologetica al servizio di chi vuole far credere che siano le conquiste femminili a provocare nel Maschio una violenza in fondo giustificata e comprensibile. Guai a scalzare gli uomini dalla sella della Marlboro country o risponderanno al fuoco! Misogini nostrani come Marcello Veneziani (L’uomo uccide: non è colpa del maschilismo) e Massimo Fini (Donne, guaio senza soluzione) la pensano esattamente in questi termini.
Questo dimostra che le conquiste del femminismo, da sole, non bastano. È necessaria una visione allargata in cui la dialettica tra i generi non risponda alla logica dei cowboy e delle indiane. Stare dalla parte delle donne non significa essere contro gli uomini. I generi non sono un gioco a somma zero. Anche se è comprensibile che cambiamenti sociali, culturali ed economici mettano in crisi vecchi equilibri, si deve chiedere (e pretendere) che gli uomini siano capaci di stare al passo e non sulla difensiva. Se nel lungo periodo finirà la dipendenza economica delle mogli (o anche se finissero le mogli), non vuol dire che gli uomini non saranno più capaci di avere un posto nella società. Non saranno più l’asso-piglia-tutto ma questo non significa che non avranno un valore.
Le donne combattono con sé stesse e con la società per definire il proprio ruolo e il proprio valore. Perché non dovremmo pretendere lo stesso dagli uomini?
Il ragionamento secondo il quale i diritti delle donne intaccano privilegi senza i quali gli uomini non sono più nulla, significa interpretare gli uomini come individui che guadagnano la loro identità solo a spese delle donne. Certo, la fine dell’angelo del focolare implica la fine del diavolo capace di dire solo “Perché lo dico io!” ma questa non è la fine dell’uomo in quanto tale. Il cambiamento del ruolo femminile è un’occasione per gli uomini, una sfida positiva per uscire dai loro stereotipi di genere che gli sono rimasti appiccicati addosso.
In definitiva, le conquiste delle donne sono conquiste dell’umanità intera. All’ufficiale americano che lo interrogò riguardo alla sua razza, Einstein rispose semplicemente: «Umana».