Se continua minacciate di diseredarlo.
Oltre queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio
di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri».
Grazia Deledda
In principio fu il verbo, non si discute. Certamente fu la scintilla che mise in moto l’universo, appena dopo che il primo sostantivo si svincolò dalla grande madre nulla col problema del punto interrogativo che lampeggiava nell’oscurità; in sostanza, a quale diavolo di materia-identità fosse più opportuno dare seguito e corpo.
Furono gli avverbi a permettere all’Uomo-tarzan di slanciarsi dinamicamente nella foresta del possibile, molto tempo dopo; per ultimi vennero gli aggettivi, i maledetti che giunsero infine a connotare gli oggetti nell’era della decadenza dal flusso naturale, quei figliastri di pesi estetici che crearono lo specchio dove poggiare l’immagine del demonio, almeno così la pensano alcuni Editor e quasi tutti gli insegnanti di italiano delle superiori.
Non si scherza con questa roba, è una cosa di cui ti rendi conto solo dopo diversi anni che la maneggi, quanto la scrittura abbia un carattere indipendente e sopporti a malapena di sorreggere i tuoi diari esistenziali, i dolori con cui cominci a scrivere da piccolo, i flussi residuali della tua coscienza volitiva che si fa strada e che in genere non interessano oltre la cerchia ristretta dei sodali che si rispecchiano in te.
La scrittura-scimpanzé ti è salita sulla schiena con una forma di cecità verso ciò che ti riguarda da vicino, e se ne sta andando lontano scansandoti con poca grazia, usa il tuo braccio come una mazza o come un archetto, punta a qualcosa che scopri di non sapere ed esce da te.
Sei caduto in un tritatutto, risucchiato da un’ebbrezza maligna che trasforma i pensieri in incipit ben formati, i tuoi amici in personaggi di storie vere o inventate, gli ambienti che frequenti in pericolose scatole metaforiche tra cui perdersi, col pericolo che un giorno il mondo possa mandarti una cartella Equiesistenziale dove ti si dichiara la morosità verso il collettivo e i buoni sentimenti, con tanto di bollettini pre-stampati di solitudine con cui devi necessariamente saldare i conti.
Fa freddo nelle case degli scrittori, questi danno fuoco e stemperano, soffiano, correggono e ricorreggono illusioni fino a pagarla cara, e anche dove ci sono brutti infissi d’alluminio e doppi vetri alle finestre, la semplice attività di star piegati d’inverno sulla scomoda tastiera di un notebook produce scoliosi, sciatica, reumatismi, brividi, coppini alla cervicale, groppi alla tiroide, laceranti malinconie che colano dalla fessura ambigua del climatizzatore Inverter.
Ecco ciò che va augurato a chi s’è messo in testa di “scrivere”, finchè non siete sullo strapiombo di questo versante vi si pregherebbe di lasciar perdere o di non rendere pubblico niente, piuttosto, il mondo è già sufficientemente gravato di inutile carta e ciò che avete da dire voi è già stato detto infinite volte e meglio. Val la pena piuttosto coltivare un nervo se serve a divenire altro da sé, ad essere posseduto da una visione, da qualche forma di fuocherello inestinguibile, è solo questo che salva una scrittura dal fango del -luogo comune-.
Dimenticavo: tutto questo avviene solo se accettate di scrivere cose improbabili anche per anni, talvolta, credeteci, imparate a tollerare il fatto che tutto l’Ego grezzo che producete, insisto, non interesserebbe nemmeno vostra madre, se la prendete quella sera che è rimasta sola con la boccia del Cointreau a fare i conti con le verità essenziali della vita.
E’ solo allora, forse, in concomitanza col trasloco dell’identità dell’autore dal chiaro dei contenuti all’alchimia delle strutture narrative, al centro di una febbre che spacca le labbra, che si può parlare di letteratura, di “stile”, di quella parolaccia troppo abusata che si dice: “cifra”.
Il cerchio si chiude, ciò che di sé s’era perso con l’abbandono della tassa egoica ritorna come espansione dell’essere nel logos. Qualcuno è morto avvelenato dai fumi del proprio incenso o di alcol e solitudine, nel frattempo, i più furbi hanno ragionato molto e fatto l’amore compulsivamente per rimanere attaccati alla realtà, e/o all’establishment letterario. Per chi s’interessa di letteratura mainstream, oggi, non c’è alcuna differenza tra i due concetti, la realtà produce establishment e viceversa, con grandi aspersioni di liquidi seminali -ad ingraziandum-.
Il binomio sesso-scrittura è inscindibile a certi livelli, per le donne e per i maschi sensibili può essere diverso, d’accordo, giochiamo a sostituire la parola sesso con seduzione o sentimento ma il binomio non crolla affatto, è sempre il potentissimo dio Eros che canta dal profondo dei secoli sull’irresistibile trenino della scrittura, yep.
Ecco, se il Cerbero Savianofazio non l’avesse adeguatamente bruciata, userei la parola “narrazione”, questa è la mia personale, il laboratorio di scrittura che sognavo di tenere sta tutto dentro queste quattro amenità concettuali, che nessuno se ne sia accorto va anche meglio, avrei altrimenti dovuto giustificare tutto il desolato nulla che rappresento.
Vedi come va il mondo. Anni fa mi trovai quasi per caso a un incontro “illustrativo” di un laboratorio di scrittura con alcuni Editor professionisti, andammo io e un’amica, una con cui giocavamo a fare gli scrittorini rampanti, sono errori di gioventù, che volete; erano i primi racconti, io mentivo spudoratamente sui miei piaceri di leggere le minchiate che scriveva lei, lei chissà, sulle mie forme barocche d’ignoranza.
Nemmeno ci fecero sedere in sala che già spararono il costo esorbitante della storia, ma ciò che ci rese nulli, oltre che poco interessati a iscriversi, fu il fatto di scoprirci non interessanti affatto, noi stessi in primis.
Ci dissero che eravamo nessuno, senza nemmeno una lontana tossicodipendenza, senza un fratello Down e una madre mignotta, senza l’ombra di alcun pretonzolo che ci avesse mai inchiappettato, che cavolo avevamo mai di notevole da raccontare.
Ci guardammo, io e la mia amica nessuna, la voglia di scrivere come quella di sdraiarsi dal dentista de: Il Maratoneta. Ma loro almeno erano stati onesti e chiari, e noi incapaci anche di prenderci a schiaffi; fossimo stati furbi l’avrei dovuta portare di corsa sull’appia antica per stuprarla, e lei vendicarsi il giorno dopo mandandomi il canaro della magliana in licenza premio sotto casa.
Così funziona, a spanne, una buona metà del labirinto editoriale, una cosa che potremmo definire la colonna BarbaraD’ursiana del mainstream culturale. L’altra metà è ben presidiata da una sostanza scura, complicata, che si crea nello sfregarsi tra quanta aria riuscite a farvi intorno mediante le relazioni e alcuni muretti di contenimento logico-organizzativi, le famose regole del sistema, che vanno intese sia come canoni di autorità editoriale da cui non si deroga che come modelli del logos, della scrittura intesa come forma di comunicazione commerciabile.
E dunque una buona notizia per tutti: che abbiate nulla da dire, per questa seconda metà del mondo, non è affatto una tara, anzi, garantisce miglior margine di manovra al sistema che vi ingloba, rappresentate benissimo la mass bovina mediana che pascola in libreria sotto le feste.
Ecco perchè, infine, forse io stesso potrei avere qualche possibilità di emergere con il soave esprit delle mie nullità, con la mia narrativa intimista popolata di Jeremy Irons periferici, con mio padre che ha fatto l’impiegato triste tutta la vita guidando a quaranta all’ora una fiat 128, modello Rally (era il fatto che avesse la versione Rally, in particolare, che mi spezzava).
E dunque mi son messo alla prova qualche tempo fa. Erano due anni che non scrivevo, peggio di così non mi farà, mi son detto, un bel laboratorio di scrittura creativa, tenuto da una Editor vera.
Insomma, non mi ci hanno mica portato con la camicia di forza oggi qui, al laboratorio, benchè scrivere narrativa sia un delirio, nella sostanza, un’assunzione di responsabilità della madonna. Nel senso che chi scrive le fai lui le regole del mondo, in narrativa l’unica regola che abbia un senso è il grado di “credibilità” riprodotto, figuriamoci il grave che affligge gli scrittori, e io sono qui volontariamente per fare il mio sporco gioco.
Basta guardare le spocchie travestite che stanno già sedute in sala, i cappotti e le borse e i laptop che tracimano di sedia in sedia, con tutte le file che fanno alzare altre file intere, sorridendo nessuno sa bene cosa, tutta una muina intelligente di corpi emozionati per comporre i gruppi sodali di opinione sulla piazza letterata.
Tu (cambio di persona narrante, come l’Allegro Chirurgo ti suonano subito al laboratorio se fai una cosa del genere). Insomma proprio tu, entrando in ritardo, hai bucato quella mezz’ora strategica precedente in cui, persi nelle procedure del tesserino magnetico d’ingresso, gli aspiranti scrittori in fila si sono già incendiati come zolfanelli secchi strofinandosi addosso i saluti e le presentazioni e quarti sanguinanti di curriculum e qualcuno già il numero di telefono e un appuntamento, persino.
Così adesso, cercando un posto in sala, come una mina vagante osservi la fiera mugghiante e sei interessato al bestiame in esposizione, sicuramente, almeno quanto al Verbo che tra pochi istanti sarà distribuito da quello che appare come uno sconveniente palchetto felpato dove, tra le acque minerali distribuite, troneggeranno gli insegnanti.
La tua vecchia prof sta ultimando le procedure di installazione dei conoscenti e degli sconosciuti in un contesto amichevole, informale, moderno.
Lei ha dieci anni più di te, bella è ancora bella, occhi luminosi, sorriso dentifricio. Era lei per te, quella tenerezza alternativa delle mattine che la sadica adolescenza ti cagava sopra, lei, il disegno irresistibile delle sue lentiggini, che t’insegnava l’italiano al liceo. Ancora lei che conduceva i laboratori più all’avanguardia durante le autogestioni degli anni “70”, e tu non l’hai mai dimenticata. Fuori dalle arie narrattivo-corrosive che si danno gli scrittori, un po’ la ami ancora o peggio: hai una specie di lucchetto di Moccia arrugginito dentro e non sai dove cavolo inchiavardarlo.
Accanto a lei, vecchia letterata che nel tempo ha sfondato come editor professionista presso rinomate case editrici, stazionano nervosamente le giovani leve: una specie di editor tirocinante piccolo e scuro, che pare il figlio di un intellettuale sessantottino, e poi lui l’immancabile, capigliatura da Caparezza, sdrucito il giusto, le mani sempre impegnate in un tasca di cotone messicano dove armeggia col Pueblo e con le Rizla, lo scrittore giovane, ancora poco conosciuto ma di talento, tutto il tempo a rollarsi il nome con dieci paperine intorno, minimo. E c’è ancora qualcuno che si domanda perchè tutti in Italia vogliano fare gli scrittori.
Così, scegli di andarti a piazzare nella fila che scansano tutti, salvo gli oppositivi e quelli che se la tirano. Dalla prima fila si raccolgono gli umori migliori, si contano le rughe sulla della pelle degli eventi, e ci si può girare continuamente con sussiego o con qualsiasi altro cavolo d’espressione impostata tu abbia voglia, vivaddio.
Tutte le spocchie tengono uno o più lati d’ombra, non sia mai, ma nelle distribuzioni sociali medie le quote di grande maggioranza le tengono i falsi modesti, gli agnellini mentiti, quelli che si presentano defilati, che quando aprono bocca è tutto un seminare retoriche del proprio essere infinitesimale, e come un diesel borbottante, nei falsi-mod, la spocchia emerge sempre invece alla distanza, in maniera inevitabilmente feroce, non se ne esce. Per questo ho sempre preferito gli sbrasoni manifesti, sono più onesti e si perde meno tempo in cazzate d’aria compressa.
Mi girano un po’, veramente, sembra di essere in un cinema parrocchiale, più che altro, le sedie hanno la ribaltina insidiosa dove cade di tutto, sto sempre chinato a raccogliere qualcosa come uno che gli piace guardare le fesse da sotto, e dietro di me stanno non meno di ottanta persone che producono umidità ed esclamazioni di ogni risma, per lo più donne di ogni fascia generazionale, pronte per assumere il verbo.
Il che sarebbe pure la mia condizione ideale, come rimanere chiusi in una pasticceria da bambini, proprio, se non fosse che questo dovrebbe essere un Laboratorio di scrittura, e invito io qualunque mandria senziente a produrre altro che la propria caotica quota di sopravvivenza, in un posto come questo; come andare a una messa di fondamentalisti per imparare la storia delle religioni, una roba così.
La mente ha bisogno di storie, di produrle non di assorbirle, precisamente.
Cercare la scrittura in un Laboratorio, mediamente, è come provare a fotografare lo Yeti tibetano senza che Messner s’incazzi.
Ma cosa ci faccio io qui, allora.
Sei qui per ragioni ambientali, italiano lobbysta del menga.
Già, l’Italia, ci sono svantaggi e vantaggi, metti le italiane, sono le donne più belle e sensuali del mondo, soprattutto tra i quaranta e i cinquanta, soprattutto con il desiderio di apprendere, soprattutto quando tengono un libro in mano e una vaga storia per la testa.
Le persone deludono sempre, è solo questo assunto che bisogna amare del mondo e oplà, il gioco è servito.
Produco auto-aforismi per scaldare i motori, sono in prima fila del resto, non potrò starmene zitto troppo a lungo. Ho un sacco di carne al fuoco che preme, dentro, temo che il fumo di bruciato che già s’alza possa attirare troppe attenzioni che non voglio, oppure che voglio, non lo so, non mi sono mai capito bene in mezzo ai gruppi, tendo a tirare a indovinarmi.
Comunque, il mio amore dentifricio è suggestiva, squillante, e mi presenta come il suo allievo “prediletto”, ma si tratta subito di una bugia, sparata a casaccio. In realtà, son mesi e mesi che rifiuta di leggere i miei racconti con le scuse più improbabili, bastava un: “no guarda, sono piena di lavoro fin sopra i capelli”; ma no invece, m’ha attirato sapientemente nella sua rete di scrittura creativa e io ho fatto pippa, mi sono messo in stand-by umano, con lei e il suo lab.
Mi è stato promesso che questo è un livello propedeutico al secondo dove solo dodici discepoli avranno accesso, dove si entrerà nel cuore del lavoro creativo. Insomma si tratta di un purgatorio di passaggio e io in fondo amo i purgatori, si passeggia sotto gli alberi tutto il tempo senza bestemmie né opere pie, la mia condizione ideale.
Intanto tre signore della fila dietro la mia mi si sono già attaccate al collo per fare gruppo, una di queste mi accavalla e scavalla le gambe (che sa benissimo d’avere) sotto il naso, ripetutamente, tiene uno di quei piccoli tatuaggi vicino l’astragalo che segnalano la disponibilità delle chiavi di casa sotto il tappetino.
Mi si prospetta una laocoontica gang-bang intellettuale che mi sfiancherà in breve volgere, se un po’ mi conosco. Devo ricordarmi di ringraziare per l’opportunità concessa, umilmente, piuttosto.
Non sto scherzando, lei sa, ci sono gli affetti, e in definitiva: tutto sobbolle nel muscolo della conoscenza, a cominciare dal soffritto dell’inutile.
Che si bruci pure la pentola, dunque.
Sipario.
-Continua-