L’ultima volta che ho visto Alessandro Ballan era novembre, quello del 2013, e sembra una vita fa. Avevamo parlato del suo infortunio in allenamento, di quei giorni di paura in Spagna, della lenta riabilitazione, del Nord. Sì, il Nord. “Vorrei rivivere l’emozione di vincere un Fiandre” aveva detto. “E una Roubaix”.
Tre giorni dopo era arrivata quella tegola improvvisa. Il nero più nero. Poi la squalifica per alcune sedute di ozono terapia a Montichiari nel 2009. I giornali avevano scritto lapidi di inchiostro. Carriera finita.
Quello che non sapevano è che la gente del ciclismo ha continuato a vedere Ballan come il ragazzo vestito di azzurro con il braccio alzato in un pomeriggio di sole del settembre 2008. Campione del Mondo. Per sempre.
Al telefono gli chiedo che effetto fa, dopo mesi di prigionia, sentire che le sbarre finalmente si sono dissolte. In un giorno. “Sinceramente, non cambia nulla” dice. “Se avessi avuto la firma su un contratto, una squadra con cui rientrare, allora sì che avrei aperto lo champagne. Ma non ho prospettive e so più di ieri che il rientro non sarà facile. Ho una voglia matta di rientrare in gruppo, mi mancano le corse ma sono consapevole che ho trentacinque anni e ho addosso la solita etichetta: dopato. Come sempre si tende a fare di tutta un’erba un fascio.”
Uno dei tanti. Quella squalifica è una ferita che non si rimarginerà. Anche se Alessandro spiega che gli è stato chiaramente riconosciuto che quelle sedute erano state praticate durante un infortunio, lontano dalle corse, con il solo desiderio di voler guarire più in fretta. Sì perché il tempo, quando fai il ciclista, è prezioso quanto le gambe. “Io non ci sto a smettere ora” dice lui. “Vorrei tornare a testa alta e spiegare la mia storia.”
Far sì che gli altri credano a quella che è semplicemente la verità. E’ persino più difficile che trovare una squadra o qualcuno che ti dia fiducia. Mi sono sempre chiesta perché la gente riesca di più a credere alle bugie piuttosto che alle cose vere. Come ci si può difendere dall’aver detto tutto chiaramente e non essere stato creduto?
Esistono dei casi molto più gravi che sono stati riaccolti a braccia aperte, lasciati liberi di sbagliare di nuovo. Hanno sbagliato e hanno fatto ancora male al ciclismo. Male due volte, persino tre. A questo che è uno sport fragile di suo, complicato non solo per il doping ma per mille altre cose ignorate. Eppure per Ballan il trattamento riservato è diverso. Non ho mai capito questa cosa del due pesi, due misure. Non c’è una volta che ci sia stata equità. “Tre mesi fa” racconta Alessandro, “mi dicevo che se altri avevano avuto così tante possibilità, ne avrei avute anche io. Invece niente, devo pagare questo scotto. Non so neanche io spiegarmi il perché dei diversi trattamenti.”
Perché?
Ce ne sono molti. Eppure l’etichetta rimane la stessa. Anche se c’è tanta gente che rivuole Ale in gruppo. Forse perché certe emozioni non si possono cancellare e la sua squalifica non procura l’indignazione di una trasfusione di EPO. E non meritava una condanna così dura.
Metti assieme tutto: i sogni, le scadenze, le possibilità. Si calcolano anche i momenti che inevitabilmente perdi. Lo sai fin dall’inizio della tua carriera che perderai qualcosa per un motivo o per l’altro: metti in conto tutto. Solo che Alessandro forse non aveva pensato a tutto questo. Gli infortuni prima e la squalifica poi. Per fortuna con il ciclismo impari a guardare avanti. “E’ inutile negarlo” spiega lui. “Vorrei poter trovare una squadra che mi permetta di essere competitivo nelle corse che sento più mie: Fiandre, Roubaix. E sento che potrei portare anche il mio bagaglio di esperienza alle nuove leve. Abbiamo tanti ragazzi che promettono bene.”
Sì, perché le strade del Nord sono diverse da tutto. Serve conoscerle a memoria per vincerle.
Di getto, chiedo ad Alessandro se crede che la schiettezza sia ancora un valore. “Il ciclismo non è un mondo semplice” dice. “Ma quale mondo lo è? Come in molti altri ambienti, chi sa vendersi bene ha vita più facile. A volte succede che il meccanismo corrompa anche i rapporti tra i compagni. Mors tua vita mea. E’ una questione di carattere.”
Ora c’è il richiamo del gruppo, nonostante tutto. La voglia di tornare. Nessuno ridarà ad Alessandro le occasioni mancate, però uno dei vantaggi di questo sport è che le rivincite dipendono dalle tue gambe. Serve una squadra, serve la fiducia. Che alla fine è sempre lì che si torna. C’è una sparata mondiale che non si dimentica. E poi l’infortunio. Dalla luce al buio improvviso che ha continuato ad essere buio per troppo tempo. E’ una storia che val la pena raccontare. E il modo migliore che hanno i ciclisti per farlo è pedalare. Il gruppo è un libro non ancora scritto. La strada è inchiostro che scorre.
E’ una storia che bisogna raccontare.