Crescere in una famiglia multiculturale.

Creato il 14 gennaio 2015 da Paola Annoni @scusateiovado

Oggi a pranzo ho mangiato olla. Una zuppa con i ceci, le patate e il pollo.

Ieri lenticchie. Sempre con patate, chorizo. Grandi pentolate che profumano di inverno sulle montagne andaluse.

Sì, c'è a casa mia nonna e tutto profuma di cibo buono, il caldo è più caldo del solito e tutta la casa si è trasformata in un'enorme produzione di maglioni e calzine calde da portare in casa.

Tutto profuma di casa. E mentre ero nella vasca da bagno ho cominciato a pensare a cosa vuol dire casa, per me.

Niente frasi da smemoranda in stile "la casa è dove è il cuore".

Io non so bene cos'è casa, perché una casa ben precisa non l'ho mai avuta.

Quando mi chiedono "di dove sei?" io non so davvero cosa rispondere e quindi ho optato per una risposta che sia aggira più o meno intorno a "abito tra Parma e Piacenza", che è decisamente diplomatico.

Ho un padre comasco, una madre andalusa, mia sorella è nata in Valtellina, abbiamo abitato in Trentino e in Sardegna, per un periodo io ho vissuto a Milano e la mia residenza negli ultimi anni è stata un casino.

Di dove sono? Cosa vuol dire crescere in una famiglia multiculturale e puoi vantare tra i parenti un'inglese, una marea di spagnoli, una uruguaiana e un'olandese d'adozione e due cugini con sangue svedese?

Di sicuro impari ad essere un diverso, perché la tua mentalità è più aperta. E tutto, ti sembra un pochino più normale che per gli altri e il tuo senso di adattabilità è decisamente più spiccato che negli altri.

Impari che il razzismo è qualcosa di veramente brutto (vi auguro i racconti di mia madre di quando era in Svizzera negli anni '70) e che la reazione contraria a volte rasenta il ridicolo: tra i dipendenti dell'hotel che avevano i miei genitori possiamo annoverare un ex guerrigliero colombiano (cuoco), argentini (camere), un portoghese (aiuto cuoco canterino), una rumena che si nascondeva dal fidanzato (camere), marocchini (portiere di notte dormiglione), una ragazza troppo lenta della Costa D'Avorio (lavapiatti).

E ogni volta mio padre si chiedeva da dove cavolo li tirasse fuori mia madre (oltre ad incavolarsi per tutti i fazzoletti comprati ai ragazzi di colore, che sapevano che mia madre era un soggetto debole).

Cresci che non hai una tradizione culinaria, e quindi te la inventi: per la cena di Natale l'unico punto fermo sono le tartine al salmone. E il prosecco, che quello ci sta sempre bene.

E farò outing: la prima volta che ho mangiato gli anolini (i tipici tortellini ripieni di Parmigiano della provincia di Parma) avevo 21 anni, perché li aveva cucinati la madre del mio ex. Perché la madre del primo era svizzero tedesca, quindi la cosa più tradizionale che faceva era la salsa per condire l'insalata e dei buonissimi biscotti di pan di zenzero.

Cresci in una provincia in cui si festeggia Santa Lucia e tu sei l'unica bambina che il 14 dicembre, per tutti i 5 anni delle elementari, al tema "cosa ti ha portato Santa Lucia?" era costretta a rispondere " Mandarini. Sempre e solo mandarini perché a casa mia Santa Lucia non passa".

Però mi beccavo Babbo Natale e pure i re Magi: Lombardia e Spagna dicono questo, e quindi regali spalmati in due date. Doppio entusiasmo.

Io capisco il dialetto comasco e il mio spagnolo è pessimo, perché a furia di sentire parlare i miei parenti mi sono accorta che mi mangio le parole come fanno giù al sud della Spagna, e tanti vocaboli li ho dati per assodati. Si dice così, e quando parlo con spagnoli riconoscono subito da dove vengo.

Da dove vengo? Da nessuna parte.

Ho la stessa sensazione di casa quando mangio la papaya salad in Thailandia, il mio dolce preferito da Cracker Barrel negli Stati Uniti, la enseimada a Palma de Mallorca e il bollito a Parma.

E' un po' come un sensazione che senti nella pancia, non tanto qualcosa legata ad un luogo ben preciso.

Mia madre con me e mia sorella non ha mai parlato spagnolo, io l'ho imparato da grande perché lo volevo fortemente, essendo la cultura spagnola in me, decisamente molto radicata.

Le ho chiesto perché non ci ha cresciute bilingue e lei mi ha risposto "non volevo che foste discriminate".

Perché quando andavo a scuola io di stanieri non ce n'erano, di neri, cinesi, dell'est Europa... Neanche l'ombra.

A parte due ragazzi polacchi, che tutti guardavamo come qualcosa di esotico, con quei nomi strani.

E mi viene da pensare - in questo momento in cui tutti parlano di grandi libertà - a quanto mia madre potesse sentirsi discriminata in un posto snob come una Salsomaggiore ancora fiorente, in cui la Spagna non era esotica, ma zotica.

E adesso, essere spagnoli, è molto cool. Perché c'è Formentera e Barcellona.

Che poi quella, non è neanche Spagna, e che ti stanno sulle palle i catalani te lo mettono nel DNA.

Quando si litiga gli insulti ogni tanto partivano in spagnolo, e quando tornavo tardi e salutavo mia mamma bisbigliando "sono tornata" , lei mi rispondeva nella sua lingua madre... E a me faceva sempre ridere.

Io ho una lingua madre, un posto dove abito, dei cibi con l'etichetta "comfort food", una nazionalità sul passaporto, una religione incollata addosso come il prezzo di un prodotto al supermercato.

Sono da sempre alla ricerca disperata di un'identità legata ad un posto perché quando sento frasi tipo "sono cittadina del mondo", mi si accappona la pelle. Appartenere ad un posto, sentirlo come tuo.

Un gesto che mi porto dietro da tempo è stato quello di un viticultore friulano (Zidarich), che parlando della sua vigna aveva preso un pugno di terra tra le mani, l'ha sgranato, l'ha annusato. Ha scavato una cantina e tutta la terra che ha tolto l'ha messa tra i filari, perché nulla doveva muoversi da lì. E questo è bellissimo.

Tutto quel terreno era suo, era della sua famiglia e non c'era nessun altro posto in cui lui sarebbe voluto essere.

La mia casa, sono le mie persone credo.

In questo momento io mi annuso mia nonna, che profuma sempre di pulito e di crema idratante. E non c'è nessun altro posto in cui vorrei essere.


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