Per garantire gli effetti sperati del quantitative easing è opportuno che le banche, vista la nuova liquidità a disposizione, ricomincino a facilitare l'accesso al credito a imprese e famiglie. È questo, infatti, uno dei principali obiettivi della Banca centrale europea al fine di incentivare la ripresa, al di là del necessario contrasto alla deflazione. Certo è che la mossa della Bce, per quanto attesa, è riuscita a iniettare un cauto ottimismo. Per il Centro studi di Confindustria, grazie al QE potremo assistere ad un “aumento del Pil, fra il 2015 e il 2016, dell'1,8% e 3,2 miliardi di risparmio sugli interessi per le imprese”. Per Rete Imprese Italia rappresenta “una forte spinta agli investimenti e ai consumi” perché “potrà consentire alle banche di disporre di maggiore liquidità per concedere più credito alle imprese e sostenere la ripresa degli investimenti e dell’occupazione”. Rilanciare gli investimenti – tra le voci che compongono il Prodotto interno lordo (Pil) – è prerogativa fondamentale per la crescita, trainando così occupazione e ripresa dei consumi. La crisi, infatti, ha provocato il calo del reddito delle famiglie costringendole perciò ad un margine di manovra ridotto. Per rendere meglio l'idea, possiamo citare il recente rapporto del Centro studi di Confcommercio: il reddito disponibile per abitante è diminuito dal valore medio di 20.400 euro del 2007 a 17.900 euro di oggi. Ad un dato di fatto, aggiungiamone infine un altro: le uscite obbligate “catturano” il 42,5% del reddito, dimezzando ulteriormente la libertà di spesa. Il processo immaginato dalla Bce, però, difficilmente produrrà un effetto immediato. Quando a marzo verrà avviato il programma di acquisto di titoli di Stato ciò non assicurerà un repentino cambio di rotta né la conclusione della fase deflattiva. Non a caso la Bce non ha posto un limite temporale al suo intervento, comunque idealmente fissato a settembre 2016, ovvero fintanto che l'inflazione non sarà tornata su livelli accettabili, prossimi al 2%. Tutto torna in questo senso: una delle conseguenze della crisi economica è stata la domanda debole e l'inevitabile calo dei prezzi, circostanze che, giustappunto, hanno avuto ripercussioni negative sull'occupazione, con le imprese costrette a tagliare i costi. Agevolare la ripresa dei consumi, o almeno favorire la crescita della domanda, contrasterebbe la spirale deflattiva e favorirebbe un ciclo economico nel suo complesso più positivo. Tutto questo, però, potrebbe non bastare. Ecco perché si invoca, con la Bce in testa, l'urgenza di proseguire nel percorso delle riforme strutturali che, tuttavia, dovrà essere affiancato da una politica fiscale di segno opposto rispetto alle misure restrittive prese in questi anni in sede comunitaria. Il livello dei consumi in Italia, registrato nelle scorse settimane proprio da Confcommercio, è un esempio di come un miglioramento tangibile e duraturo non sia realmente a portata di mano. Il +0,2% di novembre 2014 sul mese precedente – ma -0,3% su base annua – indica che dopo la recessione l'economia potrebbe comunque entrare in una fase stagnante, andamento pressoché analogo nell'Eurozona. Il rischio, con i tempi che si allungano ancora, è che non si riesca a invertire il trend nel medio periodo nonostante la politica monetaria espansiva della Bce.
(anche su T-Mag)
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