Occorre premettere che nessuno naviga nell’oro. Nel 2009 il Vaticano aveva 15 milioni 313 mila euro di disavanzo, dai tariffari vaticani sappiamo che un giovane prete riceve sugli 800 euro al mese, un parroco circa 1000 euro, un vescovo appena 1.300 euro (un’inezia, se paragonato allo stipendio di un qualsiasi dirigente). L’esenzioni dell’Ici, come stabilito dal ministero dell’Economia, vale circa 100 milioni di euro, una cifra ininfluente per il bilancio pubblico, e che tra l’altro non è imputabile alla sola Chiesa ma comprende anche tutti gli altri enti no profit.
Mons. Xavier Novell, ratzingeriano di ferro e il più giovane vescovo spagnolo (42 anni), ha deciso di ridurre la sua mensilità del 25 per cento, passando da 1200 a 900 euro: «Lo faccio per manifestare la mia solidarietà concreta a coloro che sono stati colpiti dalla crisi». «I cattolici», ha spiegato invitando anche altri a farlo, «non possono rimanere impassibili di fronte al bisogno, non possiamo passare oltre come i viandanti della parabola del Buon Samaritano. La causa della crisi va ricercata proprio nel fatto che ognuno di noi ha voluto vivere al di sopra dei propri mezzi. Se ne esce solo tutti insieme: noi, nella nostra Diocesi, cominciamo con questo piccola rinuncia». In un’intervista ha fatto questa bellissima riflessione: «Dare le ragioni della fede è il vero modo di essere progressista. Qualcuno dice che il cristianesimo si è diffuso per invidia. Sono molto d’accordo: la gente vedeva che i cristiani erano felici e si convertiva. La nostra generazione ha vissuto di rendita, ma non possiamo più permettercelo: ci vuole un annuncio del vangelo amichevole e coraggioso».
L’arcivescovo di Philadelphia, Charles J. Chaput, ha deciso invece di vendere l’enorme edificio in pietra che è stato la residenza del cardinale della Chiesa cattolica nella città per 76 anni, per trasferirsi in un’abitazione molto più modesta. Non ci sta, infatti, a vedere che i fedeli subiscano disagi mentre lui vive in una residenza del genere, inoltre vuole mandare un messaggio a tutte le diocesi cattoliche, perché vendano le residenze più fastose, per traslocare in abitazioni meno lussuose. Lui stesso, nel 1999, quando era arcivescovo di Denver, ha venduto la villa che aveva ospitato il suo predecessore per andare a vivere nel seminario diocesano.
Don Diego Soravia, da ventiquattro anni parroco della chiesa di Santo Stefano di Cadore, nel Bellunese, ha deciso da due anni di aiutare con un assegno di 500 euro chi decide di mettere al mondo un figlio. In questo tempo sono state quattordici le coppie, sposate o meno, che hanno potuto contare sull’aiuto di don Diego (la comunità è piccola): «So bene che si tratta di una cifra simbolica», precisa, «ma è un piccolo incentivo per realizzare qualcosa di grande». I soldi arrivano da iniziative della parrocchia, come un mercatino dell’usato. Ma non è tutto: «Quest’anno», ha spiegato, «abbiamo donato al Comune quattromila euro per il restauro della cappella del cimitero, l’anno scorso abbiamo destinato i fondi all’arredo urbano del paese». Altri soldi sono serviti all’acquisto di tre ambulanze.
Mons. Francesco Moraglia, nuovo patriarca di Venezia, si è insediato da poco in laguna, e continua a rimanere un prelato vicino alla gente. Incontra sempre la gente, dando precedenza ai giovani e agli operai, serve i pasti alla mensa dei poveri e poi, per sistemare l’appartamento, ha chiesto di acquistare soltanto in magazzini di arredamento rigorosamente low cost, come l’Ikea o un megastore che sia economico e senza troppe pretese.
Ovviamente di esempi ce ne sarebbero a decine e si potrebbe continuare a lungo, ma bastano per confermare le parole di Giovanni Maria Vianney: «senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Il prete non è prete per sé, lo è per voi». Ne approfittiamo infine per fare nostro l’appello di Paolo Gambi, tra i responsabili del portale “The Catholic Herald”, il quale chiede alle diocesi italiane (come avviene in molti Paesi del mondo) che già non lo fanno, di prendere esempio dalla CEI e rendere pubblici i propri bilanci in modo che nessuno abbia a sospettare di mala gestione del danaro. Anche per quanto riguarda l’8×1000, la parte gestita direttamente dalla CEI è resa pubblica, ma quella distribuita alla diocesi non sempre. Bisognerebbe che tutte le diocesi rendessero noto ai contribuenti che firmano l’8 per mille in favore della Chiesa cattolica – e a quelli che non lo fanno – che fine fanno i propri soldi. E’ più che mai necessario dare un segnale chiaro di estrema trasparenza.