Critica del monologo

Creato il 20 maggio 2012 da Faustodesiderio

Benedetto Croce (ancora lui) aveva un gatto. Si chiamava Filippo. Il filosofo gli diede questo nome per prendersi gioco del professor Filippo Masci che insegnava all’università di Napoli e si adoperò con ogni mezzo  – “camorra universitaria” dirà Croce -  per impedire a Giovanni Gentile di insegnare a sua volta filosofia alla Federico II. Ci riuscì. Ciò che, invece, non gli riuscì fu d’impedire la diffusione del pensiero tanto di Croce quanto di Gentile perché nella battaglia delle idee conta avere idee migliori dell’avversario e non una cattedra o un pulpito o una telecamera o, peggio, far ricorso ai tribunali come ha fatto Roberto Saviano con il Corriere del Mezzogiorno per le critiche ricevute, fonti alla mano, sul terremoto di Casamicciola e la distruzione, tra le tante altre, della famiglia del giovane Croce. Il motore interno della storia del pensiero e della civiltà non è il monologo, come potrebbero immaginare Saviano e i suoi telespettatori, ma la critica, tanto che i filosofi per ricercare la verità non hanno trovato di meglio che criticarsi l’un l’altro. Come si chiamava la rivista di Croce? La Critica.

La tentazione della via giudiziaria è latente nella storia del pensiero che inizia proprio con un processo. Socrate criticava in piazza il potere politico ma anche il potere dei poeti e dei tecnici e per farlo tacere i suoi avversari prima lo accusarono di empietà e corruzione dei giovani, poi lo processarono e infine lo uccisero con la cicuta. Dal processo più famoso della civiltà è nata la storia della filosofia che possiamo definire come il metodo che perennemente neutralizza il pericolo di trasformare la critica in reato garantendo così l’avanzamento della luce sul buio della Caverna platonica dalla quale tutti veniamo. Proprio i Dialoghi di Platone sono strutturati così: domanda e risposta ossia critica in atto. Se non c’è contraddittorio non c’è progresso, né nella civiltà né nella verità. Essere superati sul piano scientifico è non solo il nostro destino  – diceva Max Weber -  ma anche il nostro scopo. Il primo che provò a confutare Platone fu il suo maggior allievo: da qui il detto che l’allievo deve superare il maestro (non sempre accade ma bisogna provarci). Aristotele mosse le sue critiche a Platone quando ancora frequentava l’Accademia e Platone non lo cacciò ma chiamò il suo pupillo, anche con ironia, “la mente”. Poteva Platone, che aveva tratto il maggior insegnamento politico dalla morte violenta di Socrate, trascinare in tribunale Aristotele perché aveva osato criticare le sue Idee e la sua Repubblica?

Ogni buon liceale conosce la regola aurea della storia del pensiero: un’idea si confuta con un’altra idea. Conta poco appellarsi al dogma o all’autorità indiscutibile perché unico giudice del pensiero è il pensiero stesso che è fatto, per dirla con Vico, di ciò che è certo e ciò che è vero. Galileo Galilei, che per creare la fisica moderna passò quello che passò, a Simplicio che gli ripeteva “l’ha detto Aristotele” rispondeva: “Però signor Simplicio, venite pure con le ragioni, e con le dimostrazioni vostre, o di Aristotele, e non con testi, e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno ad essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta”. La filosofia e la scienza nascono dal valore della critica e si devono difendere con l’ironia e la mimesi da chi pensava d’avere la verità in tasca come i famosi cento talleri di Kant o le centomila lire di Casamicciola. Cartesio, che pur prendeva le sue precauzioni e dissimulava  – larvatus prodeo: cammino mascherato -   non morì per una broncopolmonite ma perché padre Viogué gli somministrò molto probabilmente un’ostia all’arsenico: il religioso voleva evitare che il filosofo mettesse strane idee in testa alla regina di Svezia impedendone così la conversione al cattolicesimo. Ma la morte di Renato Delle Carte non fu la morte del Cogito ergo sum che ebbe i suoi estimatori con i razionalisti e i suoi critici negli empiristi ed entrambi furono “sistemati” per le feste da Kant le cui tre opere maggiori suonano fin dal titolo come elogi della critica: Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio. Eppure, anche il papà del criticismo non è sfuggito al destino della critica altrui: prima di Fichte, quindi di Schelling e soprattutto di Hegel. Quest’ultimo, in particolare, ne aveva per tutti ma mentre criticava ogni suo predecessore, al contempo gli riconosceva il fatto suo e gli dava un “posto” nella storia della filosofia. Di Schelling, in particolare, che pure gli fu amico, disse che la sua filosofia dell’identità tra spirito e natura “è la notte in cui tutte le vacche sono nere”. Non si vede niente. Anche Hegel, però, non solo fu criticato ma ingiuriato. Kierkegaard, esistenzialista sempre cupo, ne rideva con gli dèi: “Ma Hegel! Qui ho bisogno del linguaggio di Omero. A quali scoppi di risa devono essersi abbandonati gli dèi! Un così sgraziato professorino che pretende semplicemente di aver scoperto la necessità di ogni cosa”. E Schopenahuer, che era invidioso perché alle sue lezioni erano in tre compreso lui mentre da Hegel c’era la fila, gliene disse di tutti i colori. Qualche esempio: ciarlatano, oscurantista, filosofastro, corruttore e “sciupatore di carta, di tempo e di cervelli” o “no, quello che vedete non è un’aquila, guardategli le orecchie”. La filosofia hegeliana aveva tante ed esagerate pretese e ancor più errori ma da qui a riempire Hegel di insulti come fece Schopenhauer, che teorizzò perfino la necessità di passare all’insulto per avere la meglio sull’avversario  – si legga L’arte di insultare pubblicato da Adelphi e curato dal compianto Franco Volpi -, ce ne passa che ce ne passa. Eppure, anche quegli insulti appartengono alla storia della filosofia e l’idea che possano essere visti come calunnie o, peggio, come un pregiudizio del quale chiedere i danni in tribunale è davvero un insulto al gusto della polemica, alla sensibilità, al senso della grandezza e al saper campare.

Hegel morì nel 1831 e non poté leggere quanto della “miseria” della sua filosofia scrisse Marx, altrimenti lo avrebbe querelato? A sua volta Marx, che tanto rubò ad Hegel, avrebbe dovuto adire le vie legali contro Proudhon che disse che il comunismo non solo non elimina i mali del capitalismo ma li aumenta? L’idea legalistica della critica è la soppressione dell’insopprimibile: il pensiero. Croce e Gentile furono i “filosofi amici” ma poi tra loro si aprì un dissidio prima in filosofia e poi in politica. Ma a nessuno dei due passò in mente di portare la filosofia dell’altro in tribunale. Cosa avrebbe dovuto dire un giudice dell’ “atto puro”? Cosa avrebbe dovuto dire delle “categorie dello spirito” di Croce? La filosofia e la filologia non si giudicano con le leggi ma con quell’intelligenza e quel senso morale che crea istituzioni e costumi che ci garantiscono libertà perché ci garantiscono conflitti di idee, valori e interpretazioni. Pensare di risolvere il conflitto o il pluralismo delle idee e dei valori portando la critica in tribunale significa né più né meno che “arrestare” il pensiero. Si prenda l’ultimo caso noto: la disputa tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris. Si contendono la “verità” a suon di polemiche e libri: Ferraris ha scritto il Manifesto del nuovo realismo e Vattimo Della realtà. Ma a nessuno dei due verrà mai in mente  – si spera -  di portare il libro e il pensiero dell’altro in tribunale per chiedere al giudice di riconoscere i danni che ha ricevuto dalle idee del suo critico. Il “tribunale della ragione” non è la “ragione del tribunale” che non mi spaventa ma mi rattrista e mi fa toccare con mano la verità di Schiller che diceva che “contro la stupidità anche gli deì lottano invano”.

Ah, dimenticavo, anche io ho un gatto ma non si chiama Filippo.

tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 20 maggio 2012



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