Croce e Napoli: la napoletanità di Croce

Creato il 19 luglio 2010 da Chiaramarina

La napoletanità di Croce

Tra l’Ottocento ed il Novecento, Napoli era considerata la capitale culturale del sud. La città visse, infatti, una sorta di belle époque in cui ci fu un fiorire di figure illustri: storici, scrittori, poeti, giornalisti, politici, economisti e giuristi.

La figura di Benedetto Croce fu al centro di questo felice sviluppo culturale.

Egli si innamorò delle piccole cose che coloravano la sua vita a Napoli, come si evince dai suoi  scritti, in cui dipinse l’antica città e le sue strade, le sue chiese e i suoi conventi, i suoi teatri e coloro che tra essi si erano aggirati e avevano vissuto, operando e amando le vicende etico-politiche  che coinvolgevano l’intero Regno. Chabod a proposito di Croce scrisse che egli aveva:

Un bisogno interiore di parlare con il passato all’accento sull’animo, sull’elemento morale, sulle passioni e sul dramma operoso e fecondo della vita; dal senso vivo del particolare concreto – una figura umana soprattutto, un angolo della vecchia Napoli, un aneddoto, all’ antico giovanile gusto del particolare corposo; il senso dei luoghi e delle persone, il compiacimento per le immagini del passato; dall’attenzione al processo storico in quanto còlto e fermato nelle figure maggiori e minori donde l’umanità piena e corposa della ricostruzione storica, al senso cosmico del passato che tutt’intorno ci preme e in esso noi viviamo immersi, che si disposa con il senso dell’uomo e della sua dignità morale, della sua libertà di volere e di fare, andando oltre il passato[1].

Anche Galasso, nei suoi scritti, sottolinea  il fortissimo legame esistente fra Croce e la cultura napoletana[2]. Infatti, quest’ultima inondava, con la forza dirompente di un fiume in piena,  la sua anima ed il suo genio creativo. Galasso, dunque,

enfatizza la napoletanità del filosofo abruzzese intrinseca nel suo modo di sentire e di pensare. La capitale del Regno, con le sue usanze stravaganti, rimase profondamente impressa nell’animo di Croce non solo per le sue vicende politiche ma anche per l’estremo calore ed il modo dei napoletani. «Di napoletano – ha scritto la figlia Elena nei suoi Ricordi familiari dai quali il genitore emerge, è il caso di dirlo, come un uomo della vecchia Italia Croce aveva “quella particolare unione di franchezza e di tocco leggero” che è tipica della città”. “Jate lìeggio”, andateci leggeri nello scrivere, consigliava in dialetto agli allievi»[3]. Egli si prodigò attivamente per migliorare concretamente le condizioni della città in cui viveva e, quindi, del suo popolo. In occasione dei 50 anni dalla morte di Croce, il Mattino pubblicò un’intervista a Giuseppe Galasso, in cui quest’ultimo analizzò il rapporto che il filosofo abruzzese ebbe con la città partenopea. Sono queste le parole con cui Galasso descrisse la napoletanità di Croce:

Benedetto Croce è stato e sempre sarà «il filosofo napoletano». E sì che nacque a Pescasseroli, ma Napoli, dove si trasferì bambino, fu il luogo delle sue prime letture, delle passeggiate con la madre Luisa Sipari in lungo e in largo per la città, per chiese, strade e palazzi. A Napoli visse praticamente tutta la vita, fino alla morte, il 20 novembre del 1952, di Napoli fu la figura più rappresentativa negli anni del fascismo, di Napoli scrisse tanto, anche su «Il Mattino». E nonostante amasse dire di sentirsi «abruzzese nei momenti difficili», è innegabile la sua appartenenza profonda alla città, che lo ricambiò con trasporto[4].

Egli, sin da fanciullo, nutriva un forte legame affettivo nei riguardi della città che imparò a conoscere ed amare sotto la guida intelligente ed affettuosa della madre. Per questo motivo quando il filosofo abruzzese, allora ventenne, si trasferì a Napoli, impiego gran parte delle sue energie nello studio di quei luoghi a lui tanto cari. Come ci ricorda l’autorevole studioso crociano, Fausto Nicolini:

Riesce, dunque, perfettamente chiaro che, nella febbre di operosità, che sin da allora lo divorava, egli consacrasse quegli anni della prima giovinezza a studiare storicamente la città da lui tanto amata, e a studiarla non soltanto nella sua storia politica, civile e culturale, ma altresì nella sua topografia, nei suoi monumenti, nel suo dialetto e nella sua letteratura dialettale[5] .

Fu anche grazie alla loro lettura che Croce riuscì a calarsi pienamente nella cultura napoletana, giacché la letteratura popolare rispecchia i momenti storici e i confini politici tra le classi sociali. Egli, inoltre, come molti altri studiosi, considerò le fiabe, che costituiscono gran parte della letteratura dialettale, come un terreno ricco di spunti per i suoi studi .

Le fiabe, considerate come materia grezza, possono servire, naturalmente, a scopi svariati, scientifici, morali, artistici. E, tralasciando gli scopi scientifici e morali, quanto ad arte possono dar luogo, per esempio al conte philosophique, col quale la fantasia vede in esse quasi simboli d’idee[6].

In quest’ottica  il racconto popolare diventa un aggregato di testi e di pratiche che sposta grandi quantità  di informazioni e di modelli all’interno delle comunità e ne orienta l’immaginario. Secondo Croce «le leggende popolari sono prodotto dello spirito collettivo, del genio della stirpe, dell’anima popolare»[7] . Inoltre, egli riteneva che le leggende racchiudessero in se importanti verità storiche . «Il che vuol dire che nel fatto ogni storia ha un pò della leggenda e ogni leggenda ha della storia»[8]. Del resto, anche Michele Rak afferma che «il racconto fiabesco estrapolava i suoi materiali da tutte le tradizioni»[9]. Tradizioni che, come sottolineò Croce, hanno un forte valore dal punto di vista antropologico. E’ proprio in quella seconda metà concettuale, cioè nel tempietto inteso come simbolo di qualcosa, che prende forma un’identità, una leggenda, che poi si modifica continuamente nel tempo seguendo le tendenze della società. «Le leggende popolari hanno un significato che va oltre la loro fallacia storica, in quanto esprimono tendenze morali, politiche, religiose e in genere sentimentali così di coloro che le foggiano come degli altri che le credettero e divulgarono»[10] .

Molte fiabe  furono un’indiscussa fonte d’ispirazione per molti scrittori stranieri, come lo stesso Croce afferma nel suo studio sui saggi di Giambattista Basile e del suo cunto de li cunti[11]. Secondo l’autore, la suddetta raccolta di fiabe è intrisa di antiche tradizioni culturali napoletane che hanno ispirato le celebri fiabe scritte dai fratelli Grimm. «Da quel tempo in poi, studiosi di tutti i paesi, […] hanno messo in luce e studiato un immenso materiale raccolto dal popolo, e si sono adoperati a trarvi conclusioni generali per gli studi di psicologia, di storia, di etnologia, di storiografia»[12]. Giambattista Basile fu anche uno degli autori prediletti di Vittorio Imbriani, noto intellettuale dell’epoca, nonché maestro dello stesso Croce. «Quel gran Basile, egli diceva, che era contentissimo d’aver fatto tornare in rinominanza»[13].  Il Croce cita spesso l’Imbriani, del quale, egli disse:

Fu il primo a dare un giudizio equilibrato dell’opera del Basile[…], e soggiunge, poche persone erano per la verità più di Vittorio Imbriani fatte per intendere il cunto de li cunti; la qualità di ingegno artistico, della quale la natura lo aveva provvisto, aveva una notevole somiglianza con quello del Basile, trovava in se stesso gli elementi necessari per capirlo[14].

Alla luce di tali considerazioni, le ragioni per cui Croce condusse aspre battaglie per la difesa del linguaggio del popolo, viva espressione della storia regionale risultano ben chiare. Secondo l’autore, lo studio dei luoghi natii risponde al bisogno irrefrenabile di sapere che cosa è accaduto e quali uomini sono passati nei luoghi in cui si è nati e si vive[15]. Il legame viscerale del filosofo con Napoli si espresse ulteriormente nella difesa dei cosiddetti lazzaroni. Gli scugnizzi napoletani erano, a suo avviso, un aspetto peculiare del Regno e la loro genuina socievolezza li contraddistingueva dalla feccia plebea di altre grandi città italiane o europee[16]. Del resto, Croce non fu l’unico letterato che considerò i lazzaroni come una caratteristica propria della città. Anche Goethe ne rimase estremamente colpito e, come lo stesso Croce, anch’egli era solito difenderli dai pregiudizi di coloro che erano soliti criticarli a priori, apostrofandoli come dei perdigiorno. A tale proposito, Goethe scriveva ai suoi amici:

Ch’egli al sentir parlare del gran numero degli oziosi di Napoli, aveva subito sospettato che: «tali affermazioni dovessero esser effetto del modo di giudicare proprio del Settentrionali, dove si considerano come oziosi tutti coloro che non non s’arrabattano a lavorare  tutto il santo giorno[…] e ho potuto osservare molta gente bensì mal vestita, ma nemmeno uno che sia disoccupato»[17].

Infatti, durante il suo soggiorno nella città partenopea, Goethe capì che i napoletani erano soliti svolgere attività differenti rispetto a quelle del nord Europa, grazie al clima mite in cui vivevano, ma non per questo era giusto considerarli accattoni. «Persino i ragazzi più piccoli lavoravano abitualmente al mercato del pesce o in altre piccole attività»[18]. Dunque i fantastici lazzaroni, secondo l’autore, non erano degli accattoni, bensì degli ingegnosi lavoratori. Lo stesso Victor Klemperer, filologo tedesco impegnato all’epoca nel lettorato presso l’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa ed amico di Benedetto Croce, provava una spiccata simpatia nei confronti dei lazzaroni.  Egli nel suo diario di viaggio Curriculum Vitae, infatti, scrisse:

Eravamo sulla terrazza dell’albergo che era occupata da stranieri e sotto rumoreggiava un gruppo di ragazzini. Questi si spingevano l’un l’altro, provavano ad arrampicarsi sul muro del giardino e gridavano sempre più forte: “Un soldo, un soldo!”. Poco per volta cominciarono a cadere verso di loro delle monete di rame e nel momento in cui  il gruzzolo si era arricchito, ecco che comparve la processione[19].

Klemperer e Croce, come Goethe, ritenevano che il clima mite fosse uno dei fattori principali che influenzavano lo stile di vita dei napoletani «qui il clima è mite, la vita relativamente facile, si può dormire all’aria aperta e nutrirsi con poco[…] i caratteri e le abitudini della classe dei proletari variano anche col variare delle condizioni storiche»[20]. Napoli e la Campania furono per Croce e per molti altri intellettuali un’inestimabile fonte di conoscenza e di arricchimento personale. Questi luoghi possedevano incomparabili monumenti e fascinose opere d’arte; ma erano anche luoghi del vivere quotidiano e del lavoro antico. Victor Klemperer, nel capitolo Neapel im Frieden della sua opera Curriculum Vitae, descrisse intensamente le sensazioni che il capoluogo partenopeo suscitò in lui. Egli  crede fermamente nel carattere istruttivo del viaggio  ed è proprio per questo motivo che critica i viaggiatori distratti che, invece di vivere il viaggio attimo per attimo,  ammazzano quei momenti preziosi con la lettura di un giornale, presi dall’ansia di giungere, quanto prima, alla loro meta. « Per settimane mi adiravo con i passeggeri che non levavano lo sguardo neanche un secondo dal giornale anche se poi io stesso caddi nella stessa tentazione, aprendo il giornale due o tre volte»[21]. Infatti, la maggior parte dei viaggiatori è distratta, frettolosa nel sostare e sbrigativa nel guardare: un turista “push-botton”. Il tempo di scattare una foto e via, alla prossima tappa. Victor Klemperer certamente non apparteneva a questa tipologia di viaggiatori. I suoi diari sono un’emblematica testimonianza del suo modo di viaggiare. Per lui, il viaggio era un incontro con l’altro, mediante il quale approfondire la conoscenza di se stesso. Egli visse Napoli da napoletano e non da turista. Nonostante il suo brusco impatto con il popolo partenopeo (non appena arrivato crebbe di essere vittima di uno scippo, non essendo abituato all’uso spasmodico che i napoletani facevano della gestualità e stordito da quelle urla e quel chiasso che erano, e sono tutt’oggi, la voce dell’anima campana), l’autore amò profondamente questa città, proprio per la sua diversità. «Ero solo stordito da un’imprevista confusione, da veri e propri attacchi pirateschi alla mia persona e alle mie borse, da urla atroci che venivano da ogni dove. Successivamente ho imparato a vedere con humour l’arrivo ai porti del sud»[22]. Negli ultimi tre secoli, l’Italia in genere e Napoli in particolare furono percorse ed indagate da stranieri, spesso colti, interessati alla cultura del nostro paese. Klemperer giunse nel capoluogo campano per lavoro, eppure colse questa occasione per cercare di comprendere ed assimilare una cultura profondamente diversa dalla sua. Egli era solito andare in giro a zonzo, per scoprire luoghi, costumi ed usanze. Un viaggiare aperto all’incantesimo, disposto a farsi sedurre, pronto ad indulgere al ritratto verbale dei luoghi e delle persone. L’autore scrisse Curriculum Vitae soffermandosi  tutto il tempo che occorreva per impadronirsi delle emozioni che il viaggiare offriva, consapevole com’era, allora, che fra tutti i beni che la vita acquisisce, le esperienze di viaggio forse sono le sole che non andranno perdute. Klemperer sembra davvero volerci mettere davanti agli occhi ciò che di tipico (o di “topico”) ha un luogo. L’autore, voleva sfatare il mito dei napoletani perdigiorno. Questi ultimi erano, a dispetto delle apparenze, dei gran lavoratori. Il clima mite e l’atmosfera giocosa nutrivano una singolare facoltà propria dei napoletani, quella di inventarsi i lavori. Come già detto precedentemente Anche Goethe, due secoli prima, durante il suo soggiorno napoletano, fece un’osservazione simile. Infatti, durante il suo soggiorno nella città partenopea, Goethe capì che i napoletani erano soliti svolgere attività differenti rispetto a quelle dei cittadini del nord Europa, grazie al clima mite in cui vivevano, ma non per questo era giusto considerarli accattoni. Persino i ragazzi più piccoli lavoravano abitualmente al mercato del pesce o in altre piccole attività. Dunque i fantastici lazzaroni, secondo l’autore , non erano degli accattoni bensì degli ingegnosi lavoratori. Lo stesso Victor Klemperer, filologo tedesco impegnato all’epoca nel lettorato presso l’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, e amico di Benedetto Croce,provava una spiccata simpatia nei confronti dei lazzaroni.  Egli nel suo diario di viaggio Curriculum Vitae, infatti, scrisse «i bambini giocavano ovunque, fissavano anche i rari stranieri con curiosità; ma nessuno mendicava»[23]. Klemperer, nei suoi scritti, precisa più volte che per capire lo spirito napoletano bisogna viverlo. Certamente molte cose sono cambiate da allora. Ritornare sulle immagini d’epoca di luoghi che ci sono noti in un’altra veste è un po’ come ricostruire la mutazione di un territorio. Molti ritengono che la letteratura sia una scienza astratta, fine a se stessa, dimenticandosi che quest’ultima contiene brandelli di realtà cristallizzati nel tempo e, spesso, estremamente attuali.

Tanto Curriculum Vitae, quanto Viaggio in Italia, sono due opere estremamente interessanti anche dal punto di vista antropologico. Dai numerosi studi che Croce fece sulla città  nacque la Storia del Regno di Napoli, un’opera derivata dalle discussioni contemporanee sulla questione meridionale che racchiudeva la storia complessiva del Mezzogiorno e la materia storica napoletana. La differenza fra le due Italie appariva infatti irrimediabile e portava a diagnosi ed a previsioni sconsolate[24]. Croce voleva rompere con la vecchia tradizione storiografica campanilistica che tendeva a vedere la storia come uno sciagurato susseguirsi di eventi nefasti e gli uomini come delle creature inermi dinnanzi alla prorompente forza della natura. La realtà doveva essere migliorata mediante la formazione di una nuova classe intellettuale. In questa nuova ottica, ben lontana da quella tradizionale, tutto assumeva un nuovo significato. Così La Storia del Regno di Napoli diventava la storia di una delle nazioni dell’Europa moderna. Secondo Croce, la rivoluzione italiana comprendeva, dunque, quella napoletana[25]. Ad esempio, il moto risorgimentale nell’Italia meridionale e la finale confluenza del Regno nell’unità italiana non erano semplici avvenimenti politici, ma travagliati eventi necessari per la nascita di una nuova nazione. Croce, nel corso della sua vita ed in particolar modo negli anni della sua giovinezza trascorsi a Napoli, si impegnò assiduamente nella costruzione di una nuova Italia. Infatti, egli rimproverava alla storia italiana la mancanza di cooperazione fra le varie classi sociali. Nel 1917, scrisse un saggio comparso inizialmente sulla Critica[26] e poi raccolto nel volume Una famiglia di patrioti. Quest’opera rifletteva sulla tradizione liberale del Mezzogiorno, dove era maturata una sezione importante della nuova classe dirigente, e criticava quella classe viziata da un difetto dottrinario ed illuministico, da un carattere “meramente etico” condannato al fallimento nel passaggio alla realtà effettuale[27].

A questo punto, è utile ricordare al lettore che Croce faceva parte del circolo degli hegeliani di Napoli che si batterono per il miglioramento delle condizioni economiche, sociali e culturali del Mezzogiorno. Secondo Croce perché tale condizione potesse verificarsi era necessario, fra l’altro, il cambiamento della classe dirigente ed il miglioramento qualitativo dell’istruzione offerta ai giovani.

2.2 L’antipositivismo crociano e gli hegeliani di Napoli

Lo storico Giuseppe Galasso, in un’attenta analisi sui motivi che spinsero Croce ad essere antipositivista, riporta alcune righe scritte dal filosofo in cui egli espresse i motivi che lo spinsero a prendere tale decisione: «Per la delusione del mio cervello di adolescente, ansioso di luce, e che, rivolgendosi ai libri celebrati dai positivisti, otteneva soltanto qualche gruzzolo incoerente di fatterelli triviali»[28]. Da queste parole emerge chiaramente che il sapere divulgato dai professori universitari ed i loro libri non riuscivano affatto a colmare la sete culturale del giovane Croce. Del resto, Emma Giammattei ricorda che «l’interesse per la letteratura del proprio tempo, nonché per un’idea di letteratura resa continuamente contemporanea, è del resto il segno della diversità di Croce rispetto sia ai filosofi di professione, che ai letterati-professori»[29]. Fu questo uno dei motivi che spinse Croce a non portare a termine gli studi universitari. Egli preferiva trascorrere le giornate in biblioteca piuttosto che fra i banchi universitari in cui i professori, spesso poco preparati a causa del clientelismo, tediavano gli studenti con chiacchiere vacue.

L’Università è un’istituzione inadatta a servire di stimolo e vigilanza nell’insegnamento ufficiale, perché formata da clienti che aspettano dagli insegnanti ufficiali cattedre e incarichi. Per qualche decennio, fu anche peggio: il libero docente si aggirò nei corridoi universitari come auceps di “ firme” o mandò suoi commessi, ai quali accordava il diritto di riscossione a procurare firme di studenti, che poi si guardavano bene dal comparire pure ad una delle sue lezioni[30].

Secondo Croce, il sapere accademico, oltre ad essere antiquanto, era anche standardizzato. In quanto tale, non permetteva il reale innalzamento culturale del singolo, ma mirava ad una cultura massificatoria che non era in grado di soddisfare gli studenti desiderosi di sapere. Di conseguenza le lezioni universitarie erano poco frequentate, in quanto gli studenti erano attratti da nuove forme di conoscenza che prescindevano il pedante sapere divulgato dai professori «le vecchie cattedre erano senza uditorio, perché tutti accorrevano in folla ad ascoltare la nuova parola, che soddisfaceva un bisogno irresistibile ed universale e prendeva le forme di una religione ideale»[31]. Si trattava appunto della religione della libertà, ovvero su una nuova concezione dello Stato laico basato non più sul teocentrismo, ma sull’antropocentrismo. Al centro di tale condizione c’è l’uomo con i suoi diritti. Per il raggiungimento di tale obiettivo, ovvero la consacrazione della libertà insita in ogni individuo, è necessaria  la formazione di una classe politica aperta, la diffusione maggiore del mito o dell’ideologia liberale, la definizione della dimensione programmatica e partitica, il collegamento con le forze storiche e sociali. Per la diffusione di tale idee ebbe un ruolo di fondamentale importanza la corrente culturale dell’hegelismo napoletano. La scuola hegeliana è comparsa in Italia alla fine del 1830, mentre in Germania l’hegelismo era ormai superato dal marxismo. «Mentre l’hegelismo decadeva in Germania e in tutta Europa sembrava che avesse trovato rifugio e vita prospera nel mezzogiorno d’Italia»[32]. Gli hegeliani presero a modello i grandi padri del Risorgimento italiano che sacrificarono per affermare gli ideali liberali nella loro patria. «Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia patirono e morirono»[33]. Il loro obiettivo politico fu, fin dall’inizio, la rivoluzione nazionale e la costruzione di uno Stato unitario in Italia, che concepiva come compito del pensiero consapevole del proprio tempo. I giovani, che aderirono a questo movimento, fecero propria la tradizione filosofica e politica del pensiero risorgimentale degli hegeliani di Napoli, da Spaventa a De Sanctis, a Antonio Labriola, e collegarono quella tradizione alla Rivoluzione francese, alla Rivoluzione napoletana e alla filosofia classica tedesca. Il ruolo del circolo hegeliano fu quello di adeguare le categorie hegeliane della filosofia e della storia alla comprensione della storia e della questione italiana. Lo Spaventa si propose di trarre la tradizione filosofica italiana fuori dal provincialismo in cui la relegavano gli spiritualisti. Egli non negava il concetto di filosofia italiana e, più in generale, quello di nazionalità della filosofia; anzi era solito sottolineare le peculiarità delle varie tradizioni filosofiche nazionali. Egli individuava in tutte le filosofie nazionali dei caratteri comuni od affini, per cui ognuna si universalizzava. Per comprendere meglio l’importanza storica di Spaventa è opportuno leggere le seguenti righe:

Se la filosofia moderna avrà mai un futuro, e deve attendersi una vita più intensa e un più ricco sviluppo, tutto questo non sarà né in Germania, né in Francia o in Inghilterra, bensì in Italia, e in particolare su queste meravigliose coste del Meridione, dove un tempo i filosofi greci hanno già pensato i loro pensieri immortali. Ciò che distingue la maniera di filosofare di qui dalla sempre più soffocante erudizione libresca che sa di chiuso in Germania, è la caratteristica vitalità, l’intensa energia, il vivace temperamento: in tutti questi Italiani che si dedicano adesso alla regina delle scienze, in particolare però nel professor Spaventa e nei suoi discepoli, la filosofia è diventata veramente quello che dovrebbe essere dai tempi di Fichte: vita, azione, carattere personale, vorrei dire religione del cuore e non una semplice occupazione mentale fra le altre[34].

Ecco perché a Napoli la battaglia di quel gruppo giovanile che si stringeva intorno all’associazione Cultura Nuova e ai seminari del Gruppo di Studi Antonio Gramsci e la presenza combattiva di Benedetto Croce e del suo magistero fu di grande ostacolo alla prepotente invadenza del positivismo che imperversava da ogni parte con le schiere dei salveminiani protagonisti da una parte di un filo di pensiero nettamente antirisorgimentale che si fregiava, accanto alla figura del Salvemini che era ancora vivo e combattivo, di grandi personalità martiri dell’antifascismo come quelle di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli. Tali personalità erano state appunto allievi di Gaetano Salvemini e ne avevano condiviso le idee antifasciste, ma anche quella concezione negativa dello Stato unitario e del Risorgimento come conquista regia e mancata rivoluzione di popolo. La questione dello Stato fu posta da quel gruppo giovanile al centro della polemica contro l’antistatalismo di tutta quella parte politica e culturale che comprendeva vasti settori dei partiti democratici, dal Partito d’Azione a quelli della Sinistra, e che non potevano comprendere, proprio per il loro filo di pensiero antistatalista, che la fondazione dello Stato unitario era stato, proprio quello, il grandioso risultato della rivoluzione risorgimentale. La scuola di pensiero dell’hegelismo napoletano era un simbolo della fiorente attività culturale del capoluogo partenopeo.

Croce, Napoli, Klemperer, Vossler


[1] F. Chabod. Croce storico, «Rivista Storica Italiana», LXIV, 1952, pp.450-474.

[2] Cfr. G. Galasso, Intr. a B. Croce, Storie e Leggende Napoletane, Milano, Adelphi, 1990, pp. 293-338.

[3] N. Ajello, Benedetto Croce, I riti e i vezzi del filosofo che non amava il buonismo, «La Repubblica», 19 dicembre 2002.

[4] T. Marrone, A 50 anni dalla morte, «Il mattino» , 20 novembre 2002.

[5] F. Nicolini Croce e il Cunto de li Cunti, Napoli, Arte Topografica 1953, p.8. Estratto dal fasc. IV del «Bollettino» nell’archivio storico del Banco di Napoli.

[6] G. Basile, Lo cunto de li cunti, testo conforme alla prima stampa del 1636, con introduzione e note di Benedetto Croce, Vol. I, Napoli, 1987, p. XIII, in la Biblioteca Nazionale di Napoli.

[7] G. Galasso, Intr. a Benedetto Croce, Storie e Leggende Napoletane, cit., p. 295.

[8] Ivi, p. 296.

[9] M. Rak, Logica della fiaba, Milano, Mondadori, 2005, p.123.

[10] B. Croce, Storie e Leggende Napoletane, cit., p. 296.

[11] Cfr. G. Basile, B. Croce, Croce Appendice all’edizione italiana del Cunto de li cunti, Bari, Laterza & figli,1939.

[12] Ivi, p. CLI.

[13] M. Rak, Logica della fiaba, Milano, Mondadori, 2005, p. XXIII .

[14] Ibidem.

[15]B.Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, in AA. VV., Gli Hegeliani di Napoli e la costruzione dello stato unitario, mostra bibliografica e documentaria alazzo reale di Napoli, 4 giugno 1986-15 febbraio 1987 a Napoli : nella sede dell’Istituto, 1987, p.91.

[16] B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Milano, Adelphi, 2006, p.91.

[17] J. Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia,Milano, Bur, 2000, p.340.

[18] Ivi, pp.341.

[19]N. F.

[20] B. Croce, «Napoli Nobilissima», vol. XIV, fasc. I, gennaio 2005.

[21] N. F.

[22] N. F.

[23] N. F.

[24] Cfr. B. Croce, Storie e Leggende Napoletane, cit., Cap. XI.

[25] Cfr. E. Garin, Filosofia e politica in B. Spaventa, in «Memorie dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici», Napoli, 1983, p. 123.

[26] La «Critica »di Croce, fondata il 20 gennaio 1903, è probabilmente il più rappresentativo di questi veicoli di comunicazione e di dibattito e lascerà un segno tangibile nel rinnovamento della cultura italiana attraverso quaran­t’anni di vita nazionale. Il ruolo che il filosofo assegna alla rivista è chiaramente espresso in un’intervista rilasciata a Luigi Ambrosini del Marzocco l’11 ottobre 1908: «Sapete perché l’ho fon­data? L’ufficio al quale io la destinava era quello di promuovere un’ attività degli spiriti del mio paese più larga e più viva che non potessi far nascere coi soli miei volumi di speculazione astratta e solitaria… Ora, perché una teoria filosofica abbia presa specialmente in un paese antifiloso­fico come il nostro, è necessario che il pensiero scenda dalla larga astrazione e si fissi in determinati punti… La mia Critica è la mia filosofia in azione; e i singoli scrittori, di cui io parlo, sono per me tante singole esperienze teoretiche e pratiche».

Queste, ed altre analoghe considerazioni, saranno ribadite in altre occasioni: «La fondazione della «Critica»segna il cominciamento di un’epoca della mia vita, quella della maturità, ossia dell’ accordo con me medesimo e con la realtà. Nel lavorare alla «Critica» mi si formò la tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte m’era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi». Negli anni dell’ età giolittiana, la «Critica» è un terreno di confronto, a volte di scontro, tra il filosofo e le diverse espressioni dell’idealismo italiano come quelle rappresen­tate dagli scrittori fiorentini. Interessante per la compren­sione dei termini di questo confronto è un passo di Gio­vanni Papini inserito in un articolo del 1905 sulla “logica di Croce” pubblicato da «Leonardo», rivista fiorentina di grande prestigio.

[27] Cfr. R. Franchini E. Paolozzi, Guido Cortese, Milano, Civita, 1990, pp. 20-25. Il testo dedica ampio spazio alla battaglia che Croce condusse per migliorare le condizioni del Mezzogiorno.

[28] Cit. in G. Galasso, Croce e lo spirito del spirito del suo tempo, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 144.

[29] E. Giammattei,  B. Croce, Croce, Gentile e la letteratura, in La biblioteca e il Dragone, Napoli, Editoriale Scientifica, 2001, p. 71.

[30] B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, in AA. VV. Gli Hegeliani di Napoli e la costruzione dello stato unitario, mostra bibliografica e documentaria:Palazzo reale di Napoli, 4 giugno 1986-15 febbraio 1987 a Napoli : nella sede dell’Istituto, 1987, p. 91.

[31] B.Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, estr. dalla «Rivista Italiana», novembre-dicembre 1850, Torino, tipografia G.B.Paravia, 1851, p.10.

[32] B. Croce, Gli Hegeliani di Napoli e la costruzione dello stato unitario, mostra bibliografica e documentaria, cit., p. 64.

[33] R. Franchini, E. Paolozzi, Guido Cortese, Civita, Napoli, 1990, p. 136.

[34] Si pubblica quì la seconda delle lettere inviate a Theodor Stäter, come corrispondente di Napoli, alla rivista “Der Gedanke” nel 1864-65, nella traduzione di A. Gargano apparsa nel volume, Lettere sulla filosofia italiana, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 1987, p.109.


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