Mi si preparava un fine settimana coi fiocchi. Quattro partite in due giorni, di alto livello, da vivere spazzolando cucchiaiate giganti di insalate di farro e litrate di birra. L’esterno giorno emiliano preannunciava 35 gradi e una percentuale mostruosa di umidità nell’aria, dunque ero già pronto con decalitri di thè freddo e tre docce al giorno. In più, già pregustavo le finali di Wimbledon.
Ma poi, planando come avvoltoi su una futura carcassa, da Milano si sono vomitati nella casa di marzapane sia Vlad che Gastone. L’uno, in gita di piacere milanese (per un salentino che in pieno luglio decide di abbandonare le spiagge dello Jonio per gustarsi l’asfalto arroventato di Via Padova, c’è solo una parola per descrivere tutto questo: idiozia); l’altro, temporaneamente esentato dai compiti di padre, aveva voglia di un week end di cazzeggio come i vecchi tempi. Entrambi, vogliosi di lasciare la Milano esotica di questi giorni e tuffarsi nella verde Emilia.
In tutto questo, hanno dimenticato di chiedermi se avessi voglia io di incollarmeli al culo.
Ad ogni modo, dopo un venerdì sera passato a gozzovigliare interculturalmente (al suon dei tamburi maliani abbiamo mangiato etiope, indonesiano ed afghano non notando praticamente alcuna differenza tra i tre piatti), il sabato mattina capiamo che rimanere in pianura significherebbe una rapida disidratazione dei nostri corpi, dunque la meta obbligata è l’appennino. C’è un solo problema: Argentina- Germania ore 16,00, la partita del secolo. Ora si dà il caso che io sia un timido appassionato del gioco del pallone, dunque la possibilità che io me la perda per portare a spasso quei due tangheri non è proprio considerata. Ecco dunque il piano: arrivare ad un rifugio appenninico abbastanza grande e frequentato perchè vi possa trovare una televisione.
Dopo un’oretta buona di macchina, funestato da quella macchinetta scassata di Vlad che parla da solo anche quando nessuno lo ascolta, e dalle operazioni di pulitura di varie estremità di quel barbone di Gastone, arriviamo a destinazione. Prima di salire verso la meta, però, voglio capire se il rifugio ha quello che vogliamo: Gastone si preoccupa che vi sia del cinghiale con polenta, io che ci sia una dannata televisione. Che non c’è, diobono. Da nessuna parte.
A questo punto sono tentato dal lasciare questi due spaccacazzo in piena montagna emiliana, e tornare al primo luogo civile dove proiettino la maledetta partita. Ma poi, il lato ancora vivo di me ci ha pensato, e si è detto che erano anni che non scarpinavo un po’ in montagna con questi stronzi, diciamo 15 anni, quando eravamo bellissimi con quel foulard al collo. E allora, andiamo, facciamoci un’ora e mezza di cammino come quando ne facevamo anche 15 al giorno, zaino da 20 kili in spalla, e ci perdevamo per l’Aspromonte ancora pieno zeppo di covi di gente rapita (e comunque, sotto questa poesia da cialtrone, dentro di me conservo la speranza che nel rifugio di sopra una televisione ci sia….)
Al primo tornante Gastone è già in coma, mentre Vlad scopre quanto sia fico andare a camminare in montagna con delle infradito che persino ad Ibiza proibirebbero per eccessiva inconsistenza della tomaia. Dopo un po’ però si prende il ritmo, e si sale verso il rifugio che è una bellezza. Se è vero che il ricordo più persistente è quello olfattivo, che ben più del deja-vu, o della musica generazionale squarcia il velo dello spaziotempo facendoti piombare disarmato in momenti precisi che credevi di avere archiviato nel mito, beh, quell’oretta e mezza di cammino è stata uno spinello gratuito legale e rilassante, sia per me che sono il solito rimembrante, ma anche per quei due stronzoni.
Arrivati in su, tra un Gastone boccheggiante ed un Vlad con due piedi a zampogna, ammiriamo il lago appenninico limpido e pieno di pesci, le rifrazioni sulla superficie dell’acqua, gli zampilli improvvisi dei pesci. Ma poi scorgiamo il rifugio, e ci fiondiamo alla ricerca della televisione (io) e di un piatto caldo (i due falsi magri). Ma ziocane, la tele non c’è neanche qui. Sento che sto per perdere la partita che non potevo perdere, quella che avevo giurato di non perdere. Ordiniamo allora da mangiare, e cerco di ubriacarmi per dimenticare con della birra ad accompagnare i tortelloni porri e patate, le costine di maiale, il burro agli spinaci, le tagliatelle ai funghi. E mentre svaligiamo mezza dispensa di quei maledetti montanari che non tengono manco una radio, non dico una televisione, i racconti partono quasi in automatico, e la birra in corpo fa si che tra maschi i racconti erotici vadano per la maggiore, e risparmio i particolari solo perchè è acclarato che qui ci leggono anche minorenni.
Ma mentre noi tre masculi siamo tutti presi a raccontare e ad apprendere antichi ricordi di virilità, fuori si scatena l’inferno. Una pioggia con goccioloni immani che batte violentemente sul terreno che diventa fango. Ci guardiamo. In tre abbiamo al massimo una maglietta di ricambio, e quel ciolone di Vlad l’ha già usata perchè la sua era lievemente sudata (roba che ad Ibiza ti cacciano per troppa fighettaggine). La ristoratrice ci rassicura e ci dice che è il classico sgrollone di dopo pranzo, il tutto finirà entro un quarto d’ora. Sarei tentato di cogliere la palla al balzo e chiedere “Senta ristoratrice, perchè cazzo non avete una televisione? Io come la guardo Argentina Germania? Voi come la guardate? Perchè chiunque sano di mente guarderebbe la partita anzichè stare qui in culo al mondo a guardare la fottuta natura incontaminata“. Ma lascio stare, ed aspetto che spiova.
Dopo 45 minuti. Sono le 3 e un quarto e mi dico, se scendiamo veloci e poi ci infiliamo in macchina forse al primo paese trovo un bar e mi sarò perso solo mezz’ora. Ci scagliamo dunque giù in picchiata, con le infradito di Vlad che sprofondano nella poltiglia di foglie e fango, ma dopo due soli minchia di minuti riprende a piovere, pian piano sempre più forte. Gli alberi del bosco di proteggono per un po’, ma poi la pioggia cade torrenziale. I tuoni esplodono a cinquanta metri da noi, che zigzaghiamo tra i tornanti. Gastone si è già tolta la maglietta per preservarla e si è sollevato i calzoni, sospetto che al prossimo tornante si denudi del tutto. Vlad è lontano anni luce, scende comicamente con quelle sue scarpettine aiutandosi col bastone, attirandosi le risate degli altri camminatori, sembra un Peter di Heidi decerebrato. Io ad un certo punto devo togliere gli occhiali, non vedo più nulla, cerco con le mani disperatamente di scacciare le singole gocce di pioggia. Sono le 16 in punto quando esplode un altro tuono, segnale che la partita de secolo è iniziata ed io sono su una montagna a prendere acqua e fulmini e fango e a bestemmiare incomprensibili malezioni alle divinità cattive di boschi.
Dopo 40 minuti di discesa disperata arriviamo in piano e comincia a cadere pioggia pesante, che colpisce e fa male. Cazzo è grandine. Cubetti di ghiaccio di grandine. Gli ultimi 500 metri sono uno zigzagare tra un albero e l’altro, grondanti acqua e vapore ad evitare i chicchi. Rido istericamente. Riusciamo ad arrivare al tendone del rifugio. Ci togliamo maglietta e strizziamo i pantaloni. Rimaniamo così per altri 45 minuti, in attesa che spiova. Tre corpi bagnati ischerzati dai vecchi montanari equipaggiati di tutto punto. Ad un certo punto penso che ho perso quasi tutta la partita. La disperazione mi porta a correre verso la macchina in mutande, e gli altri due stronzoni mi seguono. In macchina ci copriamo come si può. Io metto un vecchio maglione di lana che è lì da 5 mesi con tanto di acari; Vlad mette il giubbotto obbligatorio arancione di sicurezza, e credetemi indossa solo quello, sembra il mese di febbraio del calendario dei Centocelle Nightmare. Gastone il tattico rimette la maglietta preservata durante la pioggia, ma fa i conti con un cellulare che ha imbarcato due litri d’acqua ed è morto.
Quando accendo la radio, mancano dieci minuti alla fine della partita. 3-0 per la Germania. Partita spettacolare dicono. Germania superba. Partita magnifica. Poi il 4-0, addirittura. Non è pioggia quella che mi bagna il viso. Sono lacrime di dolore.