Pubblichiamo una cronistoria del conflitto israelo-palestinese di Alessandro Peregalli, che ringraziamo. Tale lavoro, modificato e qui proposto in tre parti, è già apparso su La.P.S.U.S. con il titolo Israele – Palestina: cento anni di conflitti.
Buona lettura con la prima parte.
Sionismo e nazionalismo palestinese prima della nascita di Israele
Chissà a quante persone sarà venuta in mente, almeno una volta, a proposito della questione israelo-palestinese, la seguente domanda: come diavolo avrà fatto una terra dell’estensione dell’Emilia-Romagna, in gran parte occupata dal deserto, ad aver catalizzato per un secolo tensioni politiche, spinte ideologiche, interessi internazionali e rilevanza mediatica così accesi? Forse la risposta a questa domanda non la si darà mai, anche se, per chiarirci un po’ le idee, possiamo addentrarci oltre la superficiale pellicola del dibattito politico, per capire quali sono state le spinte culturali originarie che hanno generato il conflitto. Si tratta, nello specifico, di indagare la natura profonda di due nazionalismi contrapposti, il sionismo e il nazionalismo palestinese, e di capire come possano essere nati.
Sionismo, una definizione
Il sionismo si ritiene l’espressione politica della nazione ebraica e, ravvisando l’origine di tale nazione nell’antico Israele biblico, ne ricostruisce una narrazione tripartita che vede in principio l’età dell’oro di Davide e Salomone, poi la diaspora e infine la redenzione con la colonizzazione della Palestina in età contemporanea. Tale ricostruzione vuole legittimare, anticipandolo di alcuni millenni, quel concetto di nazione ebraica che trova in realtà la sua origine nel periodo ottocentesco, quello per l’appunto della nascita delle nazioni moderne. Inoltre, come ha sostenuto lo storico israeliano Shlomo Sand, non esiste alcun «popolo ebraico» omogeneo, costretto all’esilio dai romani e poi finalmente tornato sulla antica patria: «gli ebrei discendono da una pletora di convertiti, provenienti dalle più varie nazioni» (Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, 2009).
Frontespizio del primo manifesto sionista, Der Judenstaat di Theodor Herzl, 1896
Sionismo, le origini
Il sionismo, inventando la nazione ebraica, nacque come reazione all’antisemitismo dilagante nell’est Europa, e in primo luogo in Russia, che fin dal Settecento aveva costretto i suoi numerosissimi ebrei a vivere in un’unica zona, il distretto d’insediamento ebraico, situata tra il Mar Baltico e il Mar Nero. Agli ebrei fu impedito anche di acquisire proprietà terriera, e ciò determinò un loro progressivo inurbamento; questo fattore favorì a sua volta una diffusione tra essi delle ideologie più in voga in quel periodo, in primo luogo nazionalismo e socialismo. Oltre alla mancanza di emancipazione degli ebrei nell’Europa orientale (dove viveva nel XIX secolo il 75 per cento della popolazione ebraica), a spingere una parte di essi verso il nazionalismo furono anche alcuni episodi di discriminazione avvenuti in Europa occidentale, di cui il più noto fu l’affaire Dreyfus, un capitano francese accusato ingiustamente di tradimento ma colpevole solo di essere un ebreo assimilato.
Da dove nasce l’idea del «ritorno in Palestina?»
Nel 1897, in occasione del I Congresso sionista, convocato a Basilea dall’ungherese Theodor Herzl, nacque l’Organizzazione sionista mondiale; in quell’occasione per la prima volta si teorizzò la nascita di uno Stato ebraico in Palestina, da conseguire con la progressiva colonizzazione da parte di comunità ebraiche e con l’auspicabile consenso dell’Impero ottomano. In questo progetto, la spinosa questione dell’integrazione con la popolazione araba residente non fu tenuta in considerazione.
Il “Programma di Basilea” al primo Congresso sionista, 1897
Effettivamente, ci fu a cavallo tra i due secoli una cospicua partecipazione ebraica alla forte emigrazione che colpì l’Europa: solo 50 000 tra essi, tuttavia, si diressero in Palestina (andando a costituire il 7 per cento della popolazione locale), mentre quasi 2 milioni scelsero gli Stati Uniti. Oltre a più scontate motivazioni economiche, una parte del mondo ebraico non accolse l’appello sionista per motivi ideologici: si trattava tanto di ebrei marxisti come Rosa Luxemburg, i quali erano per definizioni anti-nazionalisti, quanto buona parte dello stesso clero ebraico, favorevole alla costituzione di colonie, ma contrario alla creazione di uno Stato nazionale ebraico, che avrebbe anteposto l’aspetto politico a quello religioso.
L’immigrazione ebraica in Palestina
Furono cinque le ondate migratorie (ailyot) degli ebrei in Palestina. La prima avvenne dopo che, nel 1882, si verificarono numerosi pogrom antisemiti in Russia, e si compose di 25 000 immigrati, che si trasferirono perlopiù a Gerusalemme, Giaffa e Haifa, mentre quelli che costituirono insediamenti rurali registrarono in breve un fallimento economico e divennero dipendenti dall’economia agricola locale.
I 75 000 coloni della seconda e della terza aliyah (1909-14 e 1918-23), invece, provarono a recidere i legami con l’economia araba e crearono le strutture economico-sociali necessarie alla colonizzazione. I loro slogan furono quelli della «conquista della terra» e della «conquista del lavoro», e la cornice ideologica in cui si inserirono fu quella del socialismo utopista ottocentesco, poi diventato «sionismo laburista». Vennero in quell’occasione creati i primi numerosi kibbutzim, aziende agricole di tipo comunistico, nacque una confederazione del lavoro, una milizia (la Haganah, poi nucleo fondante delle Forze di difesa israeliane) e, nel 1931, il Partito laburista di Israele.
il kibbutzim Gan-Shmuel, 1922 circa
Ma l’impostazione laburista data alle prime strutture politico-sociali coloniali trovò presto degli oppositori, cosiddetti «revisionisti». La quarta e la quinta aliyah (1924-28, 1929-38), infatti, furono composte perlopiù da piccoli imprenditori e bottegai poco inclini all’idealismo della «conquista della terra». Costoro, che erano 280 000, si diressero soprattutto a Haifa e Tel Aviv (sobborgo ebraico della città palestinese di Giaffa). Fu lì che alcuni di loro, al seguito di Vladimir Jobatinskij, costituirono dei gruppi paramilitari di ispirazione fascista, l’Irgun e la Banda Stern, che si resero protagonisti di azioni terroristiche contro i palestinesi negli anni Trenta. Il loro obiettivo ultimo era la costruzione di uno stato ebraico che comprendesse l’intera Palestina storica, compresa l’odierna Giordania, oltre che l’abbandono della precedente connotazione socialista.
Logo della banda Stern (movimento Lehi)
Il ruolo britannico
Nel frattempo la Palestina, con il disfacimento dell’Impero ottomano dovuto alla sconfitta nella prima guerra mondiale, era passata sotto l’amministrazione britannica, che la governava con il nuovo istituto del mandato internazionale. Fu in quel periodo che cominciò a prendere corpo il nazionalismo palestinese. A differenza del sionismo, che nacque in contesto europeo, lontano dunque dalla «Terra Promessa», esso nacque in un contesto in cui già da un secolo si erano poste alcune strutture semistatali e una certa autonomia politica, grazie al processori modernizzazione impresso prima durante la breve dominazione egiziana e poi con il ritorno degli ottomani.
Durante la prima guerra mondiale e i due decenni successivi, gli inglesi fecero di tutto per accrescere tanto il nazionalismo palestinese quanto il sionismo, in sostanza promettendo le stesse terre a entrambi i contendenti.
Dapprima, nel 1915, promisero agli arabi dell’Impero ottomano, rappresentati dalla massima autorità religiosa Hussein della Mecca, la creazione di uno o più «Stati arabi», in cambio di una loro ribellione contro gli ottomani. La ribellione ci fu, guidata dal leggendario Lawrence d’Arabia, ma lo Stato arabo non prese mai corpo, perché inglesi e francesi preferirono spartirsi i territori mediorientali attraverso il fantasioso strumento del mandato internazionale, considerando le loro popolazioni ancora inadatte all’autogoverno, alla democrazia e al libero mercato. Siria e Libano, dunque, furono dati alla Francia, mentre la Gran Bretagna ottenne Iraq, Giordania e Palestina, separando queste ultime con un semplice tratto di penna.
Mappa dell’accordo Sykes-Picot, 1916 (clicca per ingrandire)
Poi, nel 1917, la dichiarazione Balfour, dal nome del ministro degli esteri inglese, affermò la volontà britannica di costituire un «focolare nazionale» ebraico (espressione che non aveva precedenti nel diritto internazionale ma che gli ebrei intesero nel senso di «Stato») in Palestina. Le ragioni che possono aver indotto i britannici a una mossa di questo tipo furono (James L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese: cent’anni di guerra, 2007) varie, dalla necessità di proteggere la loro posizione nel canale di Suez con la presenza di un loro alleato alla volontà di compiacere Stati Uniti e Russia bolscevica (Trotsky e alcuni collaboratori di Wilson erano ebrei), dal desiderio di attrarre le risorse finanziarie ebraiche al timore che la Germania s’impadronisse della causa sionista. Già dal 1922 fu preciso intento dell’amministrazione britannica quello di incentivare l’immigrazione ebraica in Palestina al fine di realizzare il «focolare nazionale», tanto che nel 1931 gli ebrei raggiunsero il 17 per cento della popolazione, arrivando poi nel 1945 al 31 per cento anche sull’onda delle persecuzioni in Europa.
La Grande Rivolta palestinese
Fino alla Grande Guerra gli abitanti arabi della Palestina si consideravano perlopiù siriani, al pari degli abitanti degli odierni Libano e Giordania. Fu come reazione al sistema dei mandati e alla crescente presenza dei sionisti, che con l’appoggio britannico si stavano appropriando di molte terre e stavano creando un’economia separata e concorrente con quella locale, che nacque a ovest del Giordano un nazionalismo autenticamente palestinese. Esso aveva due anime, una di notabili (le Associazioni cristiano-musulmane) e una popolare, che nel 1920 si riunirono a Damasco in occasione del Congresso generale palestinese, chiesero formalmente la fusione di Palestina e Siria e si opposero alla Dichiarazione Balfour. Francesi e inglesi reagirono con la repressione e cercarono di dividere i palestinesi, separando le élite dai ceti popolari e i musulmani dai cristiani. La situazione si surriscaldò. Alla fine del 1935 la scoperta di un carico d’armi destinato alla comunità sionista venne considerata la prova che gli ebrei si stavano preparando alla guerra. Per reazione un predicatore palestinese di nome al-Qassam cominciò a condurre una guerriglia; i britannici lo uccisero e su tutto il territorio scoppiò la Grande Rivolta dei palestinesi.
Izz al-Dīn al-Qassām (1882 – 1935)
Le vere cause della ribellione furono di tipo economico: con l’afflusso di ebrei altamente specializzati e con l’appoggio inglese, i sionisti avevano sviluppato un robusto sistema industriale, mentre i palestinesi, perlopiù agricoltori, avevano subito gli effetti della Grande depressione, senza neanche poter adottare tariffe protezionistiche (il sistema dei mandati non lo permetteva); con gli acquisti di terra da parte dei sionisti, inoltre, il 30 per cento dei palestinesi era rimasto senza terra, mentre quattro proprietari su cinque godevano di appezzamenti insufficienti. Nelle prime fasi della rivolta i notabili palestinesi misero da parte le loro rivalità e costituirono l’Alto comitato arabo, con a capo Ami’n al-Husaini. I ceti popolari crearono ovunque dei «comitati nazionali» di stampo fortemente islamico, che organizzarono uno sciopero generale e boicottarono le merci ebraiche. I britannici sostituirono i dipendenti che aderirono allo sciopero con ebrei e repressero le sommosse cittadine. I tumulti si spostarono quindi nelle campagne, seminando il panico negli insediamenti sionisti. Gli inglesi reagirono facendo affluire 20 000 uomini che combatterono a fianco delle milizie sioniste, le quali realizzarono anche attentati dinamitardi nei mercati arabi. La ribellione fu stroncata.
Muhammad Amīn al-Husaynī (1895 ca. – 1974)
I primi piani di partizione: Peel, il Libro Bianco e la guerra mondiale
Ma i britannici, oltre a reprimere sul piano militare la rivolta, cercarono di trovare anche una soluzione politica al problema palestinese, e nel 1937 la Commissione Peel elaborò un piano che prevedeva una tripartizione del territorio, con un 20 per cento che sarebbe andato a formato lo Stato ebraico (anche se in quell’area gli arabi possedevano il quadruplo della terra dei sionisti), la maggior parte che si sarebbe unita alla Transgiordania in uno Stato arabo, e una zona con Gerusalemme e Nazaret ancora sotto mandato. Il piano fu respinto dai contendenti: gli ebrei laburisti accettarono la tripartizione ma non quella proposta, gli arabi e gli ebrei revisionisti la respinsero.
Un secondo tentativo fu fatto nel 1939 con il Libro bianco, che proponeva la creazione di una Palestina unita, con un tetto limite all’immigrazione ebraica (75 000 persone in cinque anni) e una regolamentazione della vendita delle terre. Ancora una volta entrambi i contendenti rifiutarono, ma il loro rifiuto fu in realtà solo formale: la situazione infatti si calmò e solo i revisionisti ebraici continuarono con operazioni di terrorismo, ma questa volta contro le autorità britanniche. In quel periodo la Banda Stern si fece portatrice durante la seconda guerra mondiale di una clamorosa proposta al regime nazista: conciliare la visione hitleriana di un’Europa de giudaizzata con l’emigrazione forzata degli ebrei europei in Palestina. Dal canto loro, anche i palestinesi ebbero relazioni con i nazisti, come testimonia il lungo soggiorno del loro leader Ami’n al-Husaini in Germania; è vero, tuttavia, che furono molti in quegli anni i leader nazionalisti e anti-colonialisti nell’impero britannico che vedevano i nazisti come utili alleati in funzione della loro indipendenza. Con il calo dell’immigrazione ebraica, l’aumento della produzione industriale e agricola (dovuta anche alla guerra sottomarina mediterranea, che ebbe l’effetto di una tariffa protezionistica) la disoccupazione scese a tal punto che i palestinesi sono soliti denominare «la prosperità» il periodo bellico.
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