L’annuncio di Barack Obama di porre fine allo storico embargo americano verso Cuba – sembra un slogan da campagna elettorale per recuperare punti dopo l’ultima batosta repubblicana – vorrebbe farci bissare l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino.
La cortina di ferro tra Usa e Cuba era iniziata a sgretolarsi quando Raul Castro aveva rimpiazzato di fatto il fratello Fidel e i venti di occidentalizzazione cominciavano a far comodo ai cubani.
Più che Bergoglio in questo processo c’entra la storica visita del ’98 di Karol Wojtyla a Cuba che, non solo servì a ridimensionare gli ululati nostalgici del compagno Fidel, ma anche a ricordare al dittatore cubano che i cattolici sull’isola erano una forza numerica da riconoscere e tutelare.
Per tornare agli americani, l’inasprimento dell’embargo cubano fu l’errore più clamoroso della fallimentare politica estera di John Kennedy.
La Cuba castrista, per decenni spina nel fianco degli USA, battagliò in autonomia la sua “guerra fredda” lontano dall’ex URSS, vendendo a noi occidentali l’immagine di isola felice comunista. I dissidenti che lasciarono l’Avana andavano dicendo il contrario.
Quando vedremo fast food americani in centro all’Avana, ci chiederemo se mai il tanfo di un hamburger sia così disgustoso da esiliare l’olfatto della storia. La rivoluzione cubana fu prima di tutto rivolta intellettuale e i primi indizi sono disseminati nei Diari di viaggio del medico Ernesto Che Guevara.
I balli, le tette e i culi cubani così come le concessioni opportunistiche degli USA non potranno mai cancellare lo sforzo di piccoli uomini che sognarono e perirono per un mondo più umano, più giusto, più equo.