Cubi, isole teleportanti, esami misteriosi

Creato il 05 novembre 2012 da Mcnab75

 (Con questo articolo, rivisitato e corretto, sto per concludere il lavoro di recupero del materiale più interessante del vecchio blog. Se avete richieste particolari, se desiderate rileggere degli articoli comparsi Sull‘Orlo del Mondo, chiedete pure…)

All’inizio fu Cube – Il Cubo.

Sei persone tra di loro sconosciute si trovano imprigionate senza un apparente motivo in una gigantesca prigione strutturata a sezioni cubiche, piena zeppa di trappole mortali. Il loro unico scopo dal momento in cui si risvegliano rinchiusi e drogati sarà solo quello di trovare una via di fuga. Collaborando o meno, guardandosi le spalle l’un l’altro, oppure sfruttando le debolezze altrui per sopravvivere a spese dei compagni.

Cube non è un film perfetto, ma è dotato di un fascino che vive di luce propria. Ai tempi (1997) si parlò, e non a sproposito, di pellicola originale. Una parola che, chi mi segue lo sa, non uso quasi mai perché la ritengo pericolosa, falsa e citata troppo spesso a sproposito. Nota a margine: il regista, Vincenzo Natali, è canadese, ma di chiare origini italiane.

Cube ha due sequel, o meglio, un sequel – Hypercube – e un prequel – Cube Zero. Discreto il primo, mediocre il secondo, in cui viene meno uno dei capisaldi della saga, ossia quello di nascondere del tutto il personale che sta dietro alla costruzione dei Cubi.

Questo elemento non è affatto marginale. Il senso di mistero riguardo al motivo per cui degli sconosciuti vengono imprigionati in queste trappole mortali è la chiave del successo del primo film. Man mano che il mistero viene svelato, tutto il resto perde di fascino. 
Non a caso nel primo film la produzione abbandonò l’idea, presa in considerazione per qualche giorno, di identificare il cubo-prigione con una nave aliena. Sarebbe stato un elemento troppo caratterizzante, tanto da distruggere l’atmosfera misteriosa che Natali intendeva ottenere.
Per aumentare il gioco ai rimandi critpici e simbolici, il regista decise di dare a ciascun protagonista il nome di un famoso penitenziario: Quentin (San Quintino), Holloway (omonimo carcere londinese), Kazan (come la dura prigione di Kazan’, in Russia), Rennes (omonimo del carcere francese di Rennes), Alderson (nome di una prigione della Virginia), Leaven e Worth (dal carcere di Leavenworth, in Kansas).

Tale struttura, coi medesimi punti di forza e di debolezza, è applicabile a Lost. All’esordio mondiale del noto serial tutti (io per primo) parlarono di idea geniale, di originalità, di innovazione totale del genere. Il personaggi, così come ci vennero presentati nelle prime due stagioni, erano archetipi e incarnavano diverse sfaccettature della natura umana, partendo dall’eterno dilemma Fede contro Scienza. Lo stesso nome di uno di loro, John Locke, richiamava al noto filosofo brittanico.
Il gioco al citazionismo simbolico si ripete in altri protagonisti secondari, come per esempio Mikhail Bakunin, ex militare sovietico omonimo del filosofo anarchico russo, o anche la scienziata Danielle Rousseau, che deve il suo nome allo scrittore e filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau.

Col senno di poi, pur confermando tutti gli elogi alle prime stagioni di Lost, possiamo individuare le analogie col film di Natali, nel bene e anche nel male.
Persone sconosciute che si trovano in una situazione disperata per cause di forza maggiore.
Misteri che si accumulano di volta in volta (di puntata in puntata).
Personaggi dalla doppia personalità, spesso con alle spalle background oscuri e richiami simbolici (che abbiamo poc’anzi analizzato per sommi capi).

Certo, Lost, a parer mio, va alla deriva dopo le prime tre-quattro stagioni, naufragando poi verso bizantinismi pretenziosi, per poi sfumare in un finale che non sa né di carne né di pesce, lasciando con l’amaro in bocca molti aficionados.

Ma torniamo al cinema. Dal ’97 in poi ci sono stati diversi film con richiami più o meno vaghi a Cube. Cito per esempio Saw, saga horror di cui sono ben poco fan, ma che di certo a qualche affinità (almeno iniziale) con la pellicola di Natali.
Andando a memoria assocerei altri film a Cube: Nella mente dell’assassino, In linea con l’assassino e soprattutto The Experiment, forse il titolo più valido tra quelli appena elencati.

Ho poi scoperto una pellicola che può essere considerata il nuovo Cube, con meno derive estetiche e ancor più gioco di fino sulle psicologie degli otto protagonisti principali. Sto parlando di Exam, film inglese del 2009, diretto da Stuart Hazeldine. Naturalmente mai commercializzato in Italia.

La trama, ridotta al minimo e senza spoiler (per una volta Wikipedia si rivela la fonte migliore):

Una potente casa farmaceutica con un fatturato pari a quello dell’ottava potenza mondiale è alla ricerca di un collaboratore per un posto di lavoro le cui mansioni non sono ben specificate.

Giungono all’esame finale otto candidati di etnia e formazione culturale differente, dopo una serie di prove definite ardue dal supervisore del test senza che si sappia, però, in cosa queste consistessero. Gli otto candidati vengono fatti accomodare in una stanza con otto scrivanie sulle quali sono poggiati una matita e otto fogli, sui quali vi è impresso solo la dicitura “Candidate” seguita dal numero ordinale degli esaminandi, da uno a otto. Gli otto, dei quali mai viene dichiarato il nome vero, sono una donna di origini orientali, un nero (Black), un bianco dai modi spocchiosi (White), un indiano ex soldato (Brown), una castana (Brunette), una bruna con alle spalle studi di psicologia e impiegata nelle risorse umane (Dark), una bionda (Blonde) e un timido uomo occhialuto che non scambia parola con nessuno (Deaf, la cui traduzione letterale è sordo).

Il supervisore fa il suo ingresso nella stanza dichiarando che i candidati hanno 80 minuti per completare il test, per il quale vi è una domanda e una sola risposta da dare. Le spiegazioni sono chiare e concise: rovinare accidentalmente o volutamente il proprio foglio causa l’esclusione diretta dalla selezione, così come rivolgere la parola al supervisore tramite le camere di sorveglianza o alla guardia che rimane all’interno dell’aula, così come abbandonare per qualsivoglia motivo la stanza stessa. 

Da questo momento inizierà un duro gioco, dapprima psicologico, quindi fisico e violento, per cercare di scoprire qual è la domanda e, ancor prima, quale il vero scopo dell’esame che dà il titolo al film.

Hazeldine confeziona un piccolo ma brillante gioiello, giocando di fino sulla costruzione psicologica degli otto candidati. Ribaltamenti di stereotipi, colpi di scena, scontri verbali giocati su finezze di alta scuola: tutto contribuisce a realizzare un film da cui è impossibile staccarsi prima di aver visto la fine. Non solo: il regista gioca anche con una fotografia essenziale ma lucidissima fatta di dettagli, inquadrature precise, nitide, in cui nessun particolare è casuale o inutile alla trama, perfino zoomate su abiti, lineamenti o elementi d’arredamento.

L’inserimento di un background vagamente fantascientifico dà sostanza alla trama senza togliere eccessivo spazio al gioco di fino, alla vera perla di Exam: il confronto umano tra otto persone, quattro uomini e quattro donne, determinate a combattere l’un l’altro per ottenere un premio che cambierà per sempre la vita del vincitore.

E questo è tutto quello che ho da dirvi su un film che eleggo come il più interessante tra quelli visti negli ultimi dodici mesi (almeno). Lasciatemi solo aggiungere che Exam è stato realizzato con un budger risicato, ma con molte idee e con una precisione certosina, quasi maniacale.

La riprova, qualora ce ne fosse bisogno, che è ancora possibile creare qualcosa di innovativo, partendo da ciò che ci ha insegnato il passato, ma perfezionando l’imperfetto e scavando nelle profondità del più grande mistero del mondo: la natura umana.
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