Cyborg 2 (1993)

Creato il 23 agosto 2010 da Elgraeco @HellGraeco

Qui dove vivo la neve non si posa dal 1980. Capite bene, quindi, che l’estate è ancora lunga. E di b-movies ce ne sono ancora parecchi.
Cyborg 2, dell’anno 1993, è un esempio di potenzialità inespressa. Persa probabilmente dietro i deliri del marketing, o dietro le miserie di un budget non all’altezza delle idee che si volevano mettere in scena.  Buona parte della responsabilità, certamente, cade anche sulle spalle dei suoi autori, del loro voler fare molto e non aver concluso niente, del loro essere stati proni alle esigenze del Mercato, il Macellum Magnum neroniano del cinema. Negli ultimi tempi sono propenso a credere che la commercializzazione che affligge i due universi, cinema e letteratura, sia sempre esistita, sempre con effetti nefasti. Il ché, di conseguenza, mi porta a pensare che chi si dedica a questo tipo di strategie di mercato non abbia mai capito una ceppa di come funzionano le cose.
O forse sono io il palato fine che si illude. È sempre così, vero?
C’è, in ogni caso, una strana perversione, che ricorre di decennio in decennio, nel voler ritentare puntualmente la carta del romance cibernetico, ogni volta con la pretesa di novità, ogni volta con le puntuali sparate altisonanti, ogni volta con risultati discutibili.
Tralasciando la splendida Caterina di Alberto Sordi (1980), ci si può richiamare a “Terminator” e a “Blade Runner”. Più capolavoro il secondo del primo. Emblematici di un decennio di fantascienza. Il decennio aureo.
Ricordate bene entrambi i film, giusto?
Per una volta, e mi riferisco a Blade Runner, il romance è non solo sensato, ma bello e, dopo il director’s cut, incerto.
Ritentare tutto questo è già operazione rischiosa di per sé. Farlo dieci anni dopo, in un sedicente sequel di un principe tra i b-movie, è impresa tanto ambiziosa quanto folle.

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Van Damme, l’eroe dei due mondi

Nullifico subito qualsiasi dubbio possiate nutrire: non è lo stesso genere di film. E, nonostante si proclami seguito del “Cyborg” di Van Damme, è tutt’altra cosa.
Il ché incornicia “Cyborg 2″ di diritto nell’universo del trash, ma non gli impedisce di uscirne con le ossa rotte.
Non si sa come, da un’ambientazione post-apocalittica/distopica del primo film, si è giunti a un futuro, il 2074, ipertecnologico e decadente, stile cyberpunk, dominato da due mega-corporazioni: la Pinwheel Robotics, americana o giù di lì, e la Kobayashi Electronics, giapponese. Queste due si dividono il mercato delle tecnologie e il dominio sul mondo. La cibernetica, com’è ovvio, è la branca dominante.
L’ultima scoperta della Pinwheel, il glass shadow, un esplosivo liquido iniettabile, col quale contaminare i cyborg e trasformarli così in bombe ambulanti, è un ritrovato che, se utilizzato in atti di sabotaggio contro la Kobayashi, può far cessare la diarchia in luogo di una dittatura assoluta di un’unica realtà corporativa.
I cyborg sono esseri perfetti, dotati di facoltà psico-fisiche eccellenti. Ragion per cui pare assai curioso il fatto che ognuno di loro abbia un istruttore umano ad addestrarli.
Terreno minato quest’ultimo, corroborato da apposite leggi che vietano le unioni miste uomo-cyborg, adatto per far nascere legami puniti nientemeno che con l’incarcerazione a vita.
Pena un po’ eccessiva per una passatina senza importanza. A meno che non si voglia vietare il vero amore, quello che ti conduce a vivere in ritiro in una capanna solitaria a Mombasa, in Kenya, la “sola zona franca della terra per i cyborg senza licenza” [giuro, dicono proprio così], piantando palme nel deserto. Idilliaco. E, oh sì, appare anche Van Damme, in sogno, in qualche fotogramma, come una sorta di divinità che dispensa numeri per il Lotto, l’Eroe…

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Angelina (con qualche anticipazione…)

Angelina Jolie qui aveva diciotto anni e le stesse labbrone che ha adesso. È importante per capire. Probabilmente le ha sempre avute, senza chirurgia. Buon per lei. E forse anche per noi.
All’inizio della carriera, come lei stessa ha dichiarato, si devono prendere tutti i ruoli che arrivano.
Casella Reese [non ridete...] è il ruolo che qui le compete. Una cyborg dai fluenti capelli castani che sfugge al controllo della sua corporazione [e della sceneggiatura] per fuggire insieme al suo ganzo/istruttore chiamato Colt [ok, potete ridere...], un Elias Kotes gigione e sugar-daddy.
Lei è piena di Glass Shadow fino agli occhi, basta un nonnulla per farla saltare in aria in schizzi di metallo e silicone. Lui un po’ spaesato perché non vede la luce del sole da qualche anno, infognato com’è a vivere nel sottosuolo della megalopoli.
Sono perseguitati entrambi da uno stalker telematico che vuole aiutarli incasinandoli sempre più, che appare in ogni televisore disseminato lungo il percorso. Va da sé che, nel 2074, i televisori li buttano in strada, dovunque, e che costui, del quale si vede solo la bocca, oppure l’occhio, a seconda, fino a tre quarti del film, può utilizzarli a piacimento, persino quelli rotti e sotto cumuli di detriti e può letteralmente “infilare la scimmia dove nessuno se l’aspetta”. Non so bene cosa voglia dire, ma la portata icastica è davvero inquietante.
Per fortuna c’è Billy Drago, nel ruolo che fu di Rick Deckard/Harrison Ford, un’ammazza-lavori-in-pelle, però cattivo e psicopatico, che non fa altro che allisciarsi la sua faccia perfetta e nuova di zecca, frutto di chirurgia plastica ricostruttiva, andare a puttane e farsi distruggere, di nuovo, la faccia in un duello all’ultimo sangue tanto posticcio quanto idiota.
Jack Palance è un pirata, cyborg, avventuriero, anarchico, ribelle e poeta. Tutto lui. Tutto in un solo film. Putroppo è anche una vecchia cariatide romantica e svenevole che pronuncia frasi pericolose del tipo: “il matrimonio è un cosa meravigliosa”, chiaro indice di squilibrio mentale, e piange sulla foto dell’amata in stile Nonno Libero. Difficile da credere, con quella faccia di cuoio che si ritrova. Ma, si sa, tolto il cappellaccio da cowboy, rimane l’uomo vittima del cattivo romantico. Una larva senza spina dorsale.

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Aberrazione

“L’aberrazione della catarsi della libertà”: concetto tortuoso, ma punto lodevole del film. Casella Reese è il primo cyborg che viola la propria programmazione a seguito di un ragionamento umano.
Secondo me, la rappresentazione più efficace dell’autocoscienza del golem.
L’essere costruito diviene autocosciente e imita il proprio creatore, l’uomo. Tipico dell’intelligenza umana è l’illogicità, ovvero compiere scelte illogiche sulla base di sentimenti soverchianti, anche a scapito della propria sopravvivenza.
Altro aspetto pregevole, l’accenno a una megalopoli così profonda e strutturata, dove vive gente cui è negato persino di vedere la luce del sole. Quest’ultimo è un concetto non troppo nuovo, per la verità. Asimov è stato in grado di descriverci città ben più abissali e magnifiche, ma immaginate quanto sarebbe stato bello vederne realizzata una. O almeno un accenno.
Per il resto, in “Cyborg 2″ qualsiasi tentativo di intreccio viene disatteso e accantonato in modo talmente netto da far pensare quasi a un film realizzato a spezzoni da autori diversi. Il regista è uno solo, Michael Schroeder, mentre tanti sono gli sceneggiatori. Ognuno probabilmente coi propri gusti e coi propri miti della fantascienza e con le proprie fissazioni da esorcizzare. L’unica cosa che hanno esorcizzato, però, è stato il film.

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